lunedì 30 aprile 2012

Analisi del Vegetarianismo 3/4

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Detto questo, possiamo proporre una classificazione dei diversi tipi di vegetarianismo:
Vegetarianismo di tipo I: volontario, di natura etico-empatica, è legato al concetto di rispetto della vita degli animali. Chi si impone una dieta di tipo vegetariano considera disdicevole la sofferenza degli animali che vengono macellati per il consumo umano. Può anche essere legato a scelte religiose che impongono delle limitazioni al consumo di carne.
Vegetarianismo di tipo II: volontario, per ragioni ecologiche ed ambientali. Viene scelta una dieta di tipo vegetariano perché si seguono filosofie che propongono come soluzione ai problemi ambientali l’eliminazione del consumo di prodotti di origine animale che hanno un grosso impatto ecologico e che non sono convenienti dal punto di vista della conversione carboidrati/proteine. Oppure si evita di consumare prodotti di origine animale per salvaguardare l’ambiente naturale. «Al fondo del vegetarianesimo vi è, in senso lato, un imperativo categorico, una sorta di obiezione di coscienza alimentare che gratifica chi la pratica in quanto consolida la convinzione di contribuire con la propria scelta al rispetto dell’ecosistema» (Franchi, 2009:87).  È il dubbio etico di coloro che ritengono che l’allevamento intensivo animale per la macellazione ed il consumo umano abbia un impatto negativo sull’ambiente.
Vegetarianismo di tipo III: obbligato dalla condizione economica. Ci sono aree del pianeta o fasce di popolazione che vivono la condizione vegetariana per la particolare condizione economica o sociale, «a differenza di quanto avviene ancora nei paesi in via di sviluppo, dove una larga fetta della popolazione è per lo più vegetariana non per principio ma per povertà» (Beardsworth, 2004:547).
Vegetarianismo di tipo IV: scelta salutista. Deriva dal dubbio etico di coloro che percepiscono come un eccessivo consumo di carne possa portare tutta una serie di malattie come quelle cardiovascolari o la gotta.
Vegetarianismo di tipo IV bis: esigenza dietetica. Può essere imposta una dieta di tipo vegetariano a seguito di una patologia o di un periodo particolare di salute.
Vegetarianismo di tipo V: scelta gustativa. Alcune persone non sopportano o non gradiscono il gusto e la consistenza della carne e così ne evitano il consumo o semplicemente non la cercano e non la includono nella propria dieta. Non è un’imposizione di tipo etico od ideologico, almeno all’apparenza.
Vegetarianismo di tipo VI: ribellione ai genitori, all’autorità e alla società. Attraverso l’accoglimento delle regole e dei dettami del vegetarianismo, alcuni giovani manifestano il loro disagio od il loro senso di ribellione alla società ed ai genitori.
Vegetarianismo di tipo VII: scelta politica. Per una questione di giustizia sociale (tutti devono avere uguali possibilità) alcune persone vedono nel consumo della carne uno spreco di risorse che potrebbero essere utilizzate per sfamare i poveri del mondo ed allora cambiano la loro dieta verso una scelta di tipo vegetariano.
Vegetarianismo di tipo VIII: scelta spirituale. È la scelta di coloro che per esigenza di credere in qualcosa abbracciano l’etica vegetariana.

Pur non rappresentando una tipologia a sé (perché è una caratteristica presente in molti dei casi precedenti), è importante ricordare che il vegetarianismo ha molto probabilmente anche una componente di rifiuto alla modernità: «D’altra parte, l’enfasi posta dal vegetarianismo etico sullo sviluppo delle emancipatory politics e quella posta dal vegetarianismo come stile di vita sulla prevenzione dei rischi e sull’autoperfezionamento sono entrambe coerenti con le preoccupazioni e le ossessioni della modernità avanzata» (Beardsworth, 2004:559). Si può affermare che alla base del comportamento vegetariano esistono quindi delle ansie legate alle forme di progresso della società che non sempre vengono capite o che non si riescono a gestire sia in termini operativi ma anche per quanto riguarda la competizione che esse portano di conseguenza. Estremizzando, si può ipotizzare una “stanchezza mentale” od un irrigidimento (quindi opposto al concetto di plasticità neuronale) del soggetto nel confronti del nuovo e dello spirito di adattamento.
L’altra importante fonte del vegetarianismo è l’esigenza di sostituire la mancanza di una religione a seguito della secolarizzazione della società: «Le condizioni ideologiche per la diffusione del vegetarianismo sono legate al processo di secolarizzazione delle società occidentali, in particolare alla perdita di influenza dell’etica giudaico-cristiana per quanto riguarda l’impiego degli animali come alimento» (Beardsworth, 2004:552). In questo caso è la responsabilità della morte di un animale, senza una assoluzione “superiore”, a rendere il consumo di carne davvero problematico; manca la giustificazione morale di un atto violento, per il quale non tutti sono preparati psicologicamente o per il quale non si riesce a non provare pena.
I dettami religiosi danno infatti giustificazione etica allo sfruttamento e all’utilizzo degli animali sia per il lavoro che per il consumo alimentare: «[...] sia il Giudaismo che il Cristianesimo promuovono l’idea che agli esseri umani spetti per concezione divina il dominio sul mondo naturale: è quindi Dio a legittimare l’impiego di animali come fonte di nutrimento, seppur all’interno dei limiti imposti dalle prescrizioni religiose e alimentari.» (Beardsworth, 2004:546). Ma quando tali prescrizioni vengono meno può nascere il problema; in altre parole, la religione autorizza lo sfruttamento delle forme animali, nel contempo individuando anche delle forme di limitazione allo sfruttamento o al consumo che potrebbero inficiare la sostenibilità produttiva o salutistica. C’è quindi il contenimento di comportamenti che potrebbero diventare eccessivi anche in termini di sopportazione, ma – mancando la possibilità di basarsi sul supporto e su un contrappeso religioso non più adeguati al livello di sviluppo della società (anche a seguito dell’aumento dell’istruzione media o dell’invasività della proposta mediatica) – alcune fasce di popolazione risolvono il dubbio etico in modo alternativo scegliendo tra i nuovi movimenti culturali e pseudoscientifici presenti in quel momento, fra i quali troviamo anche il vegetarianismo.
Una terza fonte che struttura questo comportamento alimentare è il rifiuto della morte in termini generali, che quindi non consente l’accettazione nemmeno della morte degli animali; Beardsworth (2004:561) la definisce «una particolare forma di necrofobia, legata al fatto che nella cultura edonista della modernità avanzata la morte è un tabù». Più che altro la società non trasmette più gli elementi culturali tramite i quali la morte possa essere “metabolizzata” e accettata. La percezione della stessa è caotica ed infatti altre forme di morte, non percepite ma ugualmente presenti (delle piante, di lavoratori nella produzione, del vicino di casa), sono collocate in un arco comportamentale molto differente e non coerente ad un occhio esterno, ma funzionali a chi le attua.
Di conseguenza, considerando le tre fonti appena richiamate è possibile trovare una chiave di volta di tutto il ragionamento: «In questo senso le ragioni dei vegetariani sembrano fare la loro parte nel mantenimento di quella che alcuni intervistati definiscono “pace mentale” [...]» (Beardsworth, 2004:553). Il richiamo alla “pace mentale” potrebbe anche essere inteso come il parallelo di quello che qui abbiamo definito “equilibrio psicologico” includendo completamente il vegetarianismo nella Teoria dell’Etica Neurale.
Infatti pare che i vegetariani abbiano particolari esigenze psicologiche: «[...] diversi studi hanno messo in evidenza alcuni dei tratti della personalità, dei valori e delle convinzioni caratteristiche dei vegetariani. Ad esempio, una ricerca condotta in Nuova Zelanda (Allen et al., 2000:417-420) suggerisce che i vegetariani diano più importanza a concetti come “uguaglianza”, “pace”, “giustizia sociale” e allo stesso tempo approvino meno le idee di “dominazione gerarchica”, “distanza emozionale”, “razionalità” rispetto ai non vegetariani» (Beardsworth, 2004:555). Questa è probabilmente la conseguenza di una struttura particolarmente empatica del cervello dei vegetariani.
Questa forte capacità empatica può portare alla scelta di un cambiamento etico per trauma emotivo (come già sottolineato) verso una scelta vegetariana, che alle volte «nasce da una particolare “esperienza di conversione”, innescata dall’essere stati testimoni diretti o indiretti di qualche aspetto doloroso dell’allevamento, oppure dall’improvviso collegamento mentale tra un prodotto alimentare e l’essere vivente da cui deriva. Secondo Jabs (1998), infatti, le dinamiche del processo di conversione implicano il tentativo di ristabilire una coerenza interiore, cioè di affrontare il fenomeno di dissonanza cognitiva provocato dall’acquisizione di informazioni “scomode” sulla produzione e la lavorazione della carne» (Ibidem). Quindi ancora una volta emerge l’esigenza di trovare una coerenza interiore, in base alla percezione ed al senso di equità e di giustizia personale. Ma chi ha un forte senso di equità convive sempre con grandi sensi di colpa: «[...] l’adozione di una dieta vegetariana potrebbe essere interpretata come uno strumento per far fronte al senso di colpa che si può provare consumando carne» (Beardsworth, 2004:561).
E non dimentichiamo che il senso di paura che deriva dal consumo di carne è un sentimento diverso dal senso di colpa: «Il cibo, ad esempio, è necessario all’uomo per conservare forza e salute, ma allo stesso tempo può introdurre nel corpo tossine e organismi portatori di malattie […]» (Beardsworth, 2004:559).
Per completezza di ragionamento è doveroso dire che anche l’utilizzo di piante determina la morte delle stesse, anche se non viene percepito. Infatti, nel momento della trebbiatura, non tutte le piante hanno finito il loro ciclo vegetativo, anche se per nostre convenienze nello stoccaggio è meglio che queste piante siano per la maggior parte morte. Se invece vogliamo produrre insilati da mais, la pianta è in pieno stato vegetativo e così ne causiamo la morte. Da questo si possono fare due deduzioni: 1) L’uomo, come essere vivente, per sopravvivere, sfrutta altre forme di vita. Tutte le forme di vita, in qualche modo hanno bisogno ed utilizzano altri esseri viventi. 2) La percezione delle varie forme di vita non è uguale per tutti.
Per quanto riguarda gli animali, per consumarli potremmo aspettare che muoiano di vecchiaia come fanno in Tibet con lo yak, non servirebbe ucciderli. Il punto sta nel considerare la valenza che hanno la morte e l’uccidere nella mente umana. Per un fatto di sopravvivenza e di competizione evolutiva, nel nostro cervello le connessioni nervose ci dicono che non dobbiamo uccidere un nostro simile, e ciò è rinforzato da patti sociali che mantengono l’equilibrio della società (per inciso, la legge); nel momento in cui identifichiamo “vicino” anche un animale per una aumentata percezione dello stesso, anche a seguito di una maggiore ricchezza socio-culturale e alimentare, si crea un dubbio etico: come mi devo comportare?: «In termini etici quest’ultimo paradosso [produrre alimenti porta quasi sempre all’uccisione dell’animale] è particolarmente provocatorio e impegnativo per il consumatore, dal momento che lo costringe a confrontarsi con la sua condizione mortale. In ogni società tradizionale esiste un insieme di meccanismi culturali per proteggere gli individui dal senso di colpa e dall’ansia che questo paradosso può ingenerare, e tra essi compaiono anche quelle credenze religiose che legittimano l’utilizzo di animali per nutrirsi (Beardsworth, 1995)» (Beardsworth, 2004:560).
Dunque i dettami religiosi e altre forme culturali (come il vegetarianismo) servono sia come allontanamento della responsabilità delle azioni di morte che come mantenimento dell’equilibrio psicologico, anche a livello del consumatore. La coerenza delle proprie azioni è molto importante per la sanità mentale dell’uomo, per ottenerla esistono quindi strumenti di vario tipo (culturale, che abbiamo più volte richiamato, o puramente psicologico, a totale scopo funzionale): «Nelle società moderne servono allo stesso scopo sia i meccanismi psicologici come la  “dissociazione”, per cui gli animali destinati a trasformarsi in cibo per l’uomo sono considerati quasi oggetti inanimati (Plous, 1993), sia meccanismi culturali (operanti nella lavorazione degli alimenti, nel packaging e nell’etichettatura) che riescono a mascherare o minimizzare l’origine animale di molti prodotti» (Ibidem). Il tutto per alterare o creare una determinata percezione del prodotto da parte del consumatore, che deve rimanere convinto di una condizione di vita armoniosa e gratificante, quasi di sogno. La destrutturazione dell’animale è funzionale a ridurre la percezione dell’animale ammazzato; il packaging con i suoi colori, soprattutto per quel che riguarda i prodotti pronti, non consente di associare l’animale morto al prodotto acquistato.
In conclusione: o si hanno degli elementi culturali per giustificare il processo violento che serve per procurarsi il cibo, oppure si cerca di negare e di evitare questo processo. Il vegetarianismo rappresenta questa seconda opzione.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

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