lunedì 23 aprile 2012

Analisi del Vegetarianismo 2/4

<< Il continuum del Vegetarianismo

Quando si analizza il fenomeno del vegetarianismo ci si rende conto che ne esistono diverse versioni, e questo ci dice ancora una volta che ognuno trova la sua risposta ad un disagio psicologico in maniera differente ed autonoma, anche se c’è una direttiva comune dalla quale tutti attingono. Ogni persona che si definisce vegetariana ha le sue “regole” sugli alimenti da consumare, creando quindi sotto-categorie di consumatori anche piuttosto variegate, e suscitando delle diatribe nella stessa popolazione dei vegetariani. Infatti tra coloro che si definiscono vegetariani c’è chi consuma il pesce ed alle volte chi accetta di consumare pollo. Abbiamo già spiegato, dal punto di vista percettivo, questa situazione parlando del grado di sviluppo neuronale dell’animale, ma coloro che si definiscono vegetariani e consumano anche pesce e pollo probabilmente non identificano e non percepiscono questi esseri viventi come animali da salvaguardare a tutti gli effetti, non essendo essi dei mammiferi (a differenza di bovini, suini ed ovini); in effetti lo sviluppo neuronale di pesce e pollo sono inferiori al nostro, e quindi sono delle specie “più lontane” dal punto di vista evolutivo e genetico.
Ma quello che interessa maggiormente in questa parte, è far emergere l’esistenza di una continuità di comportamenti o casistiche alimentari che va ben oltre la definizione e l’inclusione nella categoria di vegetariano: «Può essere corretta e utile, allora, la definizione di un continuum del vegetarianismo sulla base delle diverse esclusioni alimentari» (Beardsworth, 2004:547). Per assurdo, coloro che consumano anche pesce ed un po’ di pollo pur definendosi vegetariani, non differiscono molto dal punto di vista alimentare da coloro che evitano le carni rosse (perché ad esempio non ne accettano il gusto) ma che non si dichiarano vegetariani.
Come evidenzia Mepham (2008:167), è variegato l’universo del vegetarianismo: alcuni che si definiscono vegetariani spesso consumano certi prodotti animali, come latte e uova (ovo-latto vegetariani); altri mangiano pesce (che guarda caso non ha carni di colore rosso e non fa rumori o non piange quando muore) e alcuni mangiano pollo (che guarda caso è meno evoluto neuralmente dei bovini). L’appartenenza ad una o all’altra categoria è fondamentalmente una definizione fittizia ma che aiuta a fare ordine in un approccio etico piuttosto articolato nelle sue ragioni e nelle sue declinazioni, anche per chi studia questi fenomeni: «[...] nell’ambito delle definizioni soggettive, troviamo ugualmente una gran varietà di regimi di astensione di fatto: da chi si ritiene vegetariano o vegetaliano  ed esercita effettivamente esclusioni rigide ed estese, a chi paradossalmente si ritiene vegetariano ma consuma in realtà più alimenti di derivazione animale rispetto chi non si definirebbe tale» (Beardsworth, 2004:548). Ciò conferma ancora una volta che l’etica è una ricerca di coerenza personale più che una condizione effettiva del soggetto.
Si è quindi capito che la definizione di vegetariano ha dei confini molto labili o comunque non definiti: «La flessibilità e la vaghezza delle auto-definizioni dei vegetariani emerge chiaramente nella ricerca condotta nel Regno Unito da Willets (1997), che ha rilevato una notevole sovrapposizione a livelli di principi e di condotta alimentare tra vegetariani e consumatori di carne. Uno studio su un gruppo di vegetariani americani (Jabs et al., 1998) ha dimostrato che le “debolezze” rientrano nella normalità, sono un dato di fatto per molti: in altre parole ci sono situazioni in cui vengono violate le regole dietetiche e di esclusione (spesso con forti sensi di vergogna) e c’è bisogno del controllo sociale esercitato dalle norme del gruppo di vegetariani a cui si appartiene per riuscire a mantenere la propria identità» (Ibidem). Questo aspetto è molto interessante perché tale atteggiamento pone il vegetarianismo accolto come una religione e un’esigenza di appartenenza in nome della quale si accetta una forzatura psicologica per aderire a principi a cui si demanda la responsabilità delle proprie azioni.
La scelta di collocarsi in una od in un’altra categoria non è casuale, ma dipende da quali dubbi etici vengono presi in considerazione a seconda della sensibilità e dell’empatia che il singolo sviluppa: «Il vegetariano che continua a consumare latticini e/o uova deve fronteggiare il fatto che la produzione di questi alimenti comporta inevitabilmente l’uccisione di vitelli e pulcini maschi in eccesso e che i metodi di produzione intensivi (in realtà anche quelli tradizionali) potrebbero comportare effetti molto negativi per il benessere degli animali» (Beardsworth, 2004:562). Visto che l’equilibrio si raggiunge a livello personale, per coloro che non conoscono le condizioni di allevamento degli animali il problema non si pone. Per gli altri, se non viene trovato un equilibrio tra etica, percezione e comportamento, c’è anche la «posizione vegetaliana, che evita tutti i prodotti animali» (Ibidem) e così via, creando anche altre categorie o personali scelte alimentari sempre più restrittive finché non si riesce a trovare un equilibrio con se stessi (anche se alla base di questo comportamento c’è una nevrosi o un bias etico).
Ed infatti, man mano che si introducono nuovi spunti di dubbio etico, l’unica possibilità è quella di trovare una coerenza a livello personale e non assoluto: «Anche se i vegetariani volessero evitare tutte le carni, non dovrebbero evitare la responsabilità per il modo in cui gli animali che procurano alcuni dei loro cibi vivono o muoiono» (Mepham, 2008:169). Quindi, se chiaramente è impossibile distinguere chi sfrutta e chi non sfrutta gli animali, la giustificazione etica ricercata dal vegetariano deve essere “passabile” o “credibile”, con lo scopo di mantenere il suo senso di “giusto” ma non serve che ciò lo sia veramente o lo sia anche per gli altri, basta che lo sembri a lui stesso. Così nel momento del consumo si sentirà in pace con la sua coscienza o non gli farà “impressione” pensare alle possibili sofferenze dell’animale che ha prodotto il suo alimento.
Ma chi non trova l’equilibrio deve passare a categorie più restrittive come ad esempio i vegani «che rifiutano tutti i cibi di origine animale, ad esempio anche il miele. Ma anche la dieta vegana e/o lo stile di vita non sono immuni da critiche del loro impatto etico sugli animali. Per esempio, nei sistemi arativi, l’uso di trattori può schiacciare i topi di campo, al raccolto delle coltivazioni la rimozione della copertura del terreno toglie la protezione ai piccoli animali dai loro predatori, mentre i pesticidi possono avvelenare gli uccelli [...]» (Ibidem).
E con questi esempi potremmo proseguire ulteriormente per far risaltare maggiormente questo continuum etico ma anche l’impossibilità, di fatto, dell’esistenza di un comportamento etico assoluto. È interessante far notare come, finché non vengono richiamati dei potenziali dubbi etici, la posizione vegana risulti in equilibrio, “giusta”. Il punto è, invece, che “occhio non vede, cuore non duole” cosicché l’importante è che la sofferenza e l’ingiustizia siano mascherate (o non percepite) perché un alimento venga accettato, nei limiti del proprio livello base (di accettazione), che è diverso per ognuno di noi a seguito della propria sensibilità, cultura, esperienza eccetera. Per “livello base” si intende il rapporto tra le informazioni ricevute e la percezione che si è creata rispetto al proprio equilibrio psicologico, cioè le condizioni che devono essere soddisfatte per l’accettazione di una condizione o di un alimento. L’ingiustizia e la violenza devono poter essere giustificate in qualche maniera, oppure devono essere eliminate dalla vista, per far sì che qualcosa venga accettato. Non è necessario che vi sia coerenza reale, ma essa deve essere formale o sostanziale, a seconda dei diversi gradi di percezione dell’intorno.
Occorre sottolineare che tali comportamenti nevrotici possono essere sostenuti e mantenuti da favorevoli condizioni economiche e culturali di contorno; in altre parole, se si ha un buon reddito o si appartiene ad una famiglia benestante, c’è la possibilità di sostenere stili di vita che gratifichino la propria etica e soprattutto consentono di escludersi dalla crudezza della vita. Ma, nel contempo, è vero che anche una società benestante consente l’esistenza di sacche di popolazione che non risolvano mai la loro nevrosi interiore.
Sono i media ed i vari mezzi di informazione che influenzano la percezione e l’etica del vegetariano raccontando, informando, dando delle interpretazioni; montando video e foto si va ad influire sulla percezione dei soggetti e chi ha un’empatia maggiore (ma il discorso forse è più complesso) cambia più facilmente il proprio comportamento per recuperare l’equilibrio psicologico alterato dalle nuove informazioni. In altre parole, nessuno nasce vegetaliano. Per assurdo, se lo fosse stato fin dalla nascita, non avrebbe dovuto nemmeno consumare il latte della propria madre che lo ha nutrito per consentirgli di giungere all’età della ragione nella quale ha fatto scelte drastiche e anti-vitali.
Chiudendo il panorama del continuum del vegetarianismo, ci si deve soffermare sul recente fenomeno della fascinazione esercitata da queste pratiche alimentari sui ragazzi tra i 15 e i 25 anni, «[...] i più affascinati dal vegetarianesimo: secondo un’indagine Ac Nielsen elaborata da Eurispes, entro il 2010 dovrebbero diventare sette milioni gli italiani “no-carne”, i più numerosi in Europa in base alle stime dell’Unione vegetariana europea. Artefici di questo primato, anche i più giovani. Adolescenti che da un giorno all’altro dicono no a tutti gli alimenti di origine animale» (Annachiara Sacchi, Corriere della Sera, 12 maggio 2010).
Sarebbe interessante da capire se queste scelte, invece di derivare da empatia nei confronti degli animali, come avviene nella maggior parte dei casi di vegetarianismo, derivino da una motivazione diversa, cioè dalla ricerca di regole, di certezze, di verità in un mondo ed una società che da messaggi contrastanti, caotici, frammentati che i giovani non riescono a gestire.
I giovani dunque sono coloro che subiscono di più gli effetti del cortocircuito etico della società, visto che sono alla ricerca di una identità e si ribellano alle norme imposte per la necessità di una coerenza etica. Approdare a queste pratiche alimentari fornisce la possibilità di avere regole chiare a cui attenersi, ancor prima di sentirsi rispettosi nei confronti degli altri esseri viventi. Questi comportamenti, però, si portano dietro una serie di problematiche come quella del rischio di carenze alimentari in una fase, quella della crescita, in cui servono proteine ad alto valore biologico (di origine animale quindi) per sostenere lo sviluppo; questi rischi sorgono anche a seguito della non conoscenza della “bilancia” dietetica che in giovane età non può essere ancora completamente compresa ed assimilata.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

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