domenica 20 maggio 2012

Scarto ontologico tra gli animali

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Ora vediamo perché si forma lo scarto ontologico tra gli animali; per inquadrare la questione dobbiamo porci le solite domande etiche:
Esiste un essere vivente posto tra l’animale uomo e gli altri animali che non può essere considerato edibile e che gode di un trattamento straordinariamente migliore da parte dell'uomo? Quale è lo scarto ontologico tra un gatto e un coniglio, tra un cavallo e una mucca, tra un cane ed un maiale? Esiste davvero questo scarto o è solo una costruzione nelle nostre menti e nella nostra sensibilità? Perché allora certi animali sono allevati prettamente per l’alimentazione umana e altri elevati a oggetto di culto? È una follia/nevrosi della società? I cani ed i gatti hanno accumulato maggiori meriti perché sono più carini, affettuosi e meno puzzolenti di altri animali?
Lo sviluppo neuronale dell’animale, unito alle sue caratteristiche fisiologiche e dimensionali, ne da una percezione soggettiva ad ogni essere umano e che muta da area geografica ad area geografica, anche in base alle sue condizioni socioeconomiche. Ad esempio: in Italia le dimensioni del gatto e del cane hanno consentito la presenza di questi animali nelle case e nei giardini, mentre in India le mucche, oltre alle dimensioni diverse, danno problematiche maggiori di igiene e pulizia. Proprio a seguito della diversa dimensione, struttura, capacità fisiche, si creano quasi delle scale di dignità tra gli animali; per assurdo ne deriva che gli stessi enti di protezione degli animali ritengono che il gatto abbia più dignità di una mucca, se difendono così veementemente l’uno rispetto all’altra, anche nel caso di una ricetta televisiva.
Ma c’è ancora un altro elemento da prendere in considerazione per capire compiutamente la definizione dello scarto ontologico tra le specie animali, all’occhio dell’uomo: infatti l’aumentato benessere di una società, fa cambiare la percezione dell’animale domestico per almeno tre ragioni:
a) Il surplus produttivo consente di dedicare il proprio tempo ad attività, anche ludiche, che  allontanano dall’esigenza di procurarsi il cibo per la propria sopravvivenza; il cibo non è più neanche trasformato o cucinato dal consumatore e così l’animale allevato a scopi alimentari arriva ai nostri occhi già destrutturato o così camuffato da non essere riconosciuto.
b) Il surplus produttivo ha dedicato porzioni sempre maggiori della popolazione ad attività lavorative che non sono inerenti al recupero o alla produzione degli alimenti, così da “mascherare” il cruento processo produttivo; il consumatore non riesce più a fare un collegamento tra le porzioni di animale che ha nel suo piatto e quello che gli gira per casa o che vede in televisione.
c) Il surplus produttivo ha trasformato il rapporto con l’animale domestico da una simbiosi reciproca (si nutre il cane perché fa la guardia, il gatto perché mangia i topi, la gallina perché fa le uova, la mucca perché fa il latte), ad uno di tipo quasi umanizzato che implica affetto e non attività di tipo funzionale. Così il gatto non è più generico, ma gli viene assegnato un nome. La percezione ne risulta quindi alterata.
Fino a che ci si limita a coccolare e a viziare un singolo animale domestico, la distorsione etica rimane in ambiti relativamente sani, ma se si considera l’osservazione contenuta nel prossimo passaggio, c’è di che preoccuparsi: «Un particolare, spesso non riconosciuto come problema, risulta nel tenere animali i quali, benché addomesticati, mantengono molti dei loro istinti selvaggi. Degli indicativi sette milioni di gatti tenuti come compagnia in Gran Bretagna si crede che siano responsabili di più dell’ 80% di tutta la fauna uccisa, calcolata in 88 milioni di uccelli e in 164 milioni di piccoli mammiferi per anno» (Mepham, 2008:181).
Questa è la negazione della Biologia come scienza e la negazione della vita stessa sulla faccia della Terra! È un cortocircuito intellettivo che ci fa capire che, se non si pongono i presupposti corretti all’inizio di un ragionamento, si finisce per perdersi e trovare risposte che negano le domande e i principi che muovono queste stesse teorie.
Infatti i piccoli mammiferi altro non sono che topi, che è bene siano tenuti ad un basso livello di popolazione, visto che infestano le case e i magazzini. Posto che è bene che anche gli uccelli vengano tenuti sotto controllo nella loro proliferazione, se anche ci fosse una specie protetta messa a repentaglio dai gatti, cosa dovremmo fare? Uccidere i gatti perché hanno un istinto biologico da predatori? Ciò è proprio la negazione delle basi etiche da cui partiva il ragionamento, cioè che uccidere non va bene. In realtà se ci sono troppi gatti nelle case è perché ci sono troppi esseri umani che impattano sul pianeta ed è ancora questo il problema con il quale dobbiamo confrontarci. Perché, se non uccidessero gli uccelli ed i topi, i gatti mangerebbero più prodotti industriali e questo comporterebbe l’uccisione di animali o comunque porrebbe la scelta se togliere ad altri essere umani il cibo.
Uscendo dall’esempio e cercando una conclusione, il punto non è se l’animale (o la pianta) senta o meno il dolore, ma è importante il modo in cui noi esseri umani lo percepiamo e il valore che gli diamo; e questo vale nei confronti di tutti gli esseri viventi. Per assurdo anche oggetti inanimati possono creare un dubbio etico, come ad esempio un’opera d’arte che viene distrutta.
Ciò vuole dire ancora una volta che è scorretto fissarsi sulle caratteristiche proprie dell’oggetto etico (animale, pianta, uomo); invece bisognerebbe fissare la propria attenzione sull’empatia, sulle capacità percettive del soggetto osservatore che poi per le sue caratteristiche genetiche sarà più sensibile ad un aspetto rispetto che un altro. Ad esempio molti sono influenzati dai rumori, dai movimenti, dai gemiti che un animale può fare quando muore; altri possono essere più influenzati dai ricordi che una certa azione può provocare eccetera. Quindi è difficile concordare con la seguente frase, a proposito di bioetica e diritti degli animali, non perché sia scorretta ma perché sembra invertire causa ed effetto: «Poiché solo recentemente è divenuto ampiamente apprezzato quanto siano simili le persone e certi animali non-umani, ci dobbiamo preparare a riconsiderare le intere basi del modo in cui noi abbiamo tradizionalmente trattato gli animali» (Mepham, 2008:164).
Non serve decidere di cambiare la propria etica o i modi di comportarsi, sono dei fenomeni naturali, automatici. Quello che ci si deve preparare a cambiare sono i libri sull’etica e le leggi degli Stati basate sulla morale, che non sono adeguati alla dinamica evolutiva di questi fenomeni.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

sabato 19 maggio 2012

Lo scarto ontologico tra uomo e animale

<< Lo scarto ontologico tra uomo e animale e tra gli animali

Nella filosofia biologica uno dei principali dibattiti riguarda lo scarto ontologico tra uomo e animale. Pur non vantando competenze specifiche in questo settore, un’opinione sull’argomento è comunque d’obbligo. Per scarto ontologico si intende, in poche parole, la differenza sostanziale tra uomo ed animale, se cioè, in altri termini, uomo ed animale siano fondamentalmente la stessa cosa e, qualora ciò non fosse vero, quali siano gli elementi che li differenziano.
Come approccio, bisogna affermare che l’uomo è prima di tutto un animale, inteso anche come categoria biologica del mondo del vivente, che è chiaramente una classificazione antropocentrica. Esiste una differenza evolutiva che si nota soprattutto nello sviluppo neuronale e del sistema nervoso centrale, ma lo scarto ontologico si propone soltanto nella testa dell’uomo, non è una realtà biologica e lo è solo in parte dal punto di vista della genetica.
L’esigenza di credere che ci sia una netta separazione tra l’essere umano e l’animale è di tipo etico ed ha la funzione di mantenere l’equilibrio psicologico. Infatti, se non creassimo questa differenza a livello cerebrale, ci troveremmo a dover risolvere molti dilemmi su come trattiamo gli animali e sul perché li utilizziamo per il nostro nutrimento: «[...] lo schiacciante consenso biologico sulla evoluzione [darwiniana] fa sorgere due domande cruciali “Cosa è un animale?” e “Come siamo noi tenuti a trattare eticamente gli animali? […] A causa del fatto che persone e animali condividono così tanto (geneticamente e quindi anche fisiologicamente), le risposte date spesso enfatizzano le caratteristiche che sono pensate essere uniche per gli umani, come le abilità di usare il linguaggio, impiegare ragionamento e usare degli strumenti. Ma la difficoltà con quella linea di argomentazione è che alcune persone (come tutti i bambini, alcuni malati gravi, alcuni anziani e alcuni disabili mentali) non hanno ugualmente queste abilità, dove certi animali dimostrano abilità di “linguaggio” (o almeno marcate capacità di comunicazione), ragionamento e capacità di costruire piccoli strumenti. In più, in accordo con lo zoologo Maurice Burton, gli animali dimostrano molti supposti attributi umani come compassione, gratitudine, amicizia, fedeltà e dolore. Così, se il nostro trattamento degli animali come fonte di cibo o negli esperimenti era considerato eticamente accettabile semplicemente perché noi (in qualche grado erroneamente) credevamo che loro mancassero questi attributi umani, noi vorremmo logicamente richiedere di accettare che certi adulti e tutti i bambini possano essere trattati eticamente nella stessa maniera» (Mepham, 2008:160).
È chiaro che l’uomo, essendo geneticamente più evoluto, ha uno sviluppo neuronale maggiore che gli consente di avere tutta una serie di abilità come il linguaggio, che negli animali più evoluti troviamo solo in maniera pressoché accennata, almeno rispetto alle capacità umane; tra l’altro questi comportamenti animali possono sembrare simili, ma non corrispondono a quelli umani, in quanto derivanti da un altro processo evolutivo ed adattivo.
Il giudizio umanizzante del comportamento animale è estremamente fuorviante. Infatti il dubbio etico nasce proprio perché confondiamo queste simili e semplicistiche forme comportamentali di atteggiamento animale con qualcosa che riconosciamo anche nei nostri stessi simili. Ovvio che il dolore è provato anche dall’animale in base al suo grado di sviluppo neuronale, ed è per questo che in alcuni soggetti umani cresce il dubbio etico in base alla loro empatia verso queste forme di vita. Ma se saltassimo a piè pari il fatto che etica è, prima di tutto, difesa di noi stessi – e in questo caso, della specie umana – diventerebbe chiaro perché non si riesca a capire che i bambini, debolissimi, devono essere difesi per il proseguo della specie umana e quindi non possono essere trattati alla stregua di una mucca, di un cane o di un insetto. E così gli anziani, che seppur alle volte non sono più in grado di esprimersi o muoversi, “rimangono” a livello mentale come coloro che ci hanno dato la vita ed appare chiaro perché per alcuni di noi sorga un dubbio etico di protezione nei loro confronti, anche se queste persone non sono più produttive come un tempo o non riescono più ad interagire con il mondo esterno; fra l’altro, gli anziani possono essere depositari di esperienza e saggezza che ci potrebbero tornare utili, ed è per questo che viene loro riconosciuto un ruolo superiore rispetto ad un animale. Per finire, i portatori di handicap vengono difesi e mantenuti, soprattutto nelle società ricche che se lo possono permettere, perché sono gli stessi genitori che li hanno messi al mondo ad amarli (esiste quindi la presenza di reali connessioni cerebrali), oltre all’adesione ad altre forme di morale come quella religiosa, che vede in ogni vita umana un figlio di Dio.
In questo quadro di corto circuito etico, il modo con il quale trattare gli animali diventa alquanto difficoltoso: «[…] il concetto di Benessere Animale è almeno controverso, perché poche persone negano che noi non dovremmo essere crudeli con gli animali. Molte persone hanno stretti rapporti affettuosi con gli animali nel domestico e in altri contesti, ma riconoscono personali contraddizioni nei loro atteggiamenti; in ciò che il limite della sofferenza dell’animale è considerato eticamente accettabile spesso dipende dal potenziale beneficio che potrebbe risultare dai modi in cui sono usati. Alle volte la contraddizione è netta – come quando alcune persone trattano i conigli come animale da compagnia, o come cibo o come un soggetto da esperimento» (Mepham, 2008:162).
Quindi l’ipotesi che l’etica cambi con la percezione che si ha dell’animale è ancora una volta giustificata, ma non basta. Infatti la percezione dell'animale, ma soprattutto della sua sofferenza, è legata anche al grado di sviluppo neuronale dell’animale e alle sue forme di manifestazione del dolore. E non è ancora sufficiente, perché, in ultima analisi, bisogna considerare che nella creazione di dubbio etico rimane fondamentale il punto di vista personale di ogni singolo individuo. A titolo di esempio: se in genere nessuno si preoccupa se una quercia viene tagliata, è invece facile che si creino dei comitati contro l’abbattimento di una vecchia quercia simbolo di una comunità, nel centro di una cittadina. È chiaro che non c’è alcun tipo di sviluppo neuronale da parte delle piante, ma una percezione da parte delle persone di quella comunità per quella specifica quercia esiste, ed è ciò che conta nella determinazione dell’etica. In altre parole, conta il valore particolare che viene dato da ogni singola persona ad ogni singolo e specifico essere vivente; se pure la quercia avesse uno sviluppo neuronale capace di far percepire una sua sofferenza nell’atto del taglio, sicuramente ci sarebbe una ancora maggiore risposta empatica da parte dell’opinione pubblica, come quella che si esprime  nella difesa del verde pubblico e degli spazi naturali in diversi livelli della nostra società. Il grado di sviluppo neuronale è importante, quindi, nella misura in cui l’essere vivente risponde ai nostri input e stimoli tali da influenzarne la nostra percezione e la nostra empatia nei suoi confronti.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

domenica 13 maggio 2012

Il caso delle Mozzarelle Blu

<< Caso studio: le Mozzarelle blu

Nel Luglio 2010, in Italia si sono avuti tutta una serie di casi che sono stati etichettati come il fatto delle “Mozzarelle Blu”. In poche parole più volte, in quel periodo, i consumatori si sono ritrovati ad acquistare mozzarelle che, a contatto con l’aria nel momento dell’apertura della confezione, diventavano di una colorazione bluastra. Il fatto è difficilmente ascrivibile solo ad una questione di alterazione dell’alimento (modifica accidentale o per negligenza, del prodotto venduto ugualmente come originario) o ad una contraffazione dello stesso (alimento venduto spacciandolo per un altro) od ad una eventuale adulterazione (riduzione del costo di produzione a scapito del valore nutritivo, senza che ne venga alterata l’apparenza) perché comprende aspetti di tutte queste ipotesi; nel contempo può essere un caso particolare per il fatto che il manifestarsi del colore blu ha creato un’ansia alimentare nei consumatori.
Si vuole dire che, se le mozzarelle non si fossero colorate, nessuno si sarebbe reso conto della eventuale frode alimentare (sempre che possa essere considerata tale) e neppure della contaminazione. Infatti i microrganismi coinvolti in queste colorazioni (principalmente Pseudomonas fluorescens), pur derivando da acque sporche o comunque indicanti acque non pulite e magari non adatte alla trasformazione alimentare, non hanno una particolare tossicità o morbosità per l’uomo, a parte i soggetti immunodepressi che ne possono essere infettati (Industrie Alimentari, Settembre 2010:92). Il fatto è emerso perché il colore influenza la percezione del prodotto, ma non è detto che faccia male alla salute; infatti le aziende coinvolte hanno continuato a produrre e non sono state bloccate (solo i lotti di prodotto collegati a quei casi sono stati ritirati dal mercato).
Quel microrganismo non è particolarmente nocivo rispetto ad altri microrganismi, ma questi ultimi non essendo “visibili” non ci allarmano.
La letteratura scientifica riporta che anche molti microrganismi probiotici, normalmente utilizzati nelle preparazioni alimentari, possono causare infezioni anche se sono generalmente considerati non patogeni (si veda il sito del Ministero della Salute Italiano); in altre parole, alcuni ceppi dei batteri probiotici (ad esempio i Lactobacillus utilizzati per produrre yogurt e formaggi) possono portare a casi di infezione ed infezione opportunistica, soprattutto in soggetti immuno-compromessi. Per non parlare dei ceppi di funghi che danno i formaggi erborinati, potenziali produttori di tossine.
Tutto ciò per dire che la presenza del microrganismo, in sé, non comporta un problema di tipo sanitario né, tanto meno, di tipo organolettico. Ciò che può determinare un problema è quindi la quantità di microrganismo presente, a seconda della sua patogenicità, tossicità e tendenza ad alterare il prodotto alimentare rendendolo non commestibile per qualche ragione.
Nel caso delle mozzarelle, è indiscutibile che ci sia stata una carenza igienica, soprattutto nelle ultime fasi della lavorazione, e purtroppo di carenze igieniche ce ne possono essere sempre (molte anche non rilevate) in quanto, a partire dalla produzione primaria, non è possibile garantire tutti i punti della filiera. Un controllo maniacale in tal senso impedirebbe la produzione; le condizioni di rischio che inficiano la salubrità dei prodotti, se controllate al giusto livello, verranno mondate ed appianate con i successivi processi tecnologici e comunque con le più che conosciute tecniche raccolte nella teoria dell’Hurdle Technology (tecnologia degli ostacoli).
Non essendoci la possibilità di una contaminazione pari a zero, il microrganismo che è già presente nel liquido di governo della mozzarella doveva essere mantenuto ad un basso livello. In caso di condizioni igieniche “fuori controllo”, doveva essere garantita la catena del freddo (uno degli elementi dell’Hurdle Technology); non è un caso che questa problematica sia “esplosa” nel periodo estivo dove già nel momento della produzione e della distribuzione è difficile mantenere gli alimenti alla temperatura ideale; non parliamo neanche delle modalità di trasporto dal negozio alle case e delle modalità di conservazione dei prodotti nell’ambito casalingo (con i frigoriferi che non vengono mantenuti alle corrette temperature).
Se una mozzarella è blu è facile accorgersi che c’è qualcosa che non va, nessuno pensa che anche una mozzarella bianchissima potrebbe nascondere una frode, se ad esempio, come accade spesso, fosse stato aggiunto del gesso nella cagliata.
Il caso in analisi svela al massimo una contraffazione alimentare in quanto il dichiarato latte italiano dalla ditta produttrice probabilmente non era poi tale, dato che un’azienda tedesca che vendeva semilavorati alla ditta italiana in oggetto (non ci interessano i nomi commerciali per questo studio), aveva avuto nello stesso periodo dei problemi analoghi.

In campo alimentare, le frodi più frequenti, quando viene dichiarata una diversa provenienza della materia prima, riguardano l’olio, il vino, il riso e le conserve di pomodoro. E molte di queste frodi sono difficili da individuare.
Nell’olio la frode alimentare è continua, nell’inconsapevolezza del consumatore: un bel colore verde, ancorché artificioso, di un olio di oliva definito extravergine, fa credere che il prodotto sia genuino anche se deriva da oli di bassa qualità addizionati di clorofille e altre componenti per mascherarne la provenienza che approfondite analisi chimiche, alle volte, non riescono a decifrare. Invece, un cambio di colore, come nelle mozzarelle che tutti ci aspettiamo bianche, mette subito in allarme. Non importa se l’evento può essere relativamente “normale” per quel particolare prodotto. Prova ne è ciò che è avvenuto in Sardegna sull’onda della campagna mediatica delle mozzarelle blu, quando una signora nel caldo luglio 2010 ha comprato una ricotta che all’apertura della confezione mostrava colorazioni dal rosa al rosso tenue; in quel caso particolare l’agente incriminato non era un batterio, bensì un lievito “cromogeno” la cui non-pericolosità è stata dimostrata da varie analisi, considerato anche che la contaminazione riguardava solo pochi millimetri di spessore della superficie dell’alimento e che la presenza di lieviti poteva essere riconoscibile dalla pigmentazione che scoraggia il consumo di prodotti “colorati”. Anche per la ricotta si trattava di un “abuso termico” subito dal prodotto per l’interruzione della catena del freddo (che può essere avvenuta tanto nella fase di commercializzazione del prodotto quanto nella conservazione casalinga).>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

Ortoressia Nervosa 3/3

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“Food rules my life”. La vita dell’ortoressico è regolata dal cibo e dalle modalità di consumo dello stesso. Gli aspetti che dobbiamo contemplare in quest’ottica sono i fattori “tempo” e “spazio” che creano un limite all'esistenza del soggetto. L’esigenza di essere sempre esattamente sicuri di ciò che si sta mangiando impone, a chi è affetto da questa nevrosi, di non avere degli “imprevisti alimentari” e quindi si impongono limiti di spostamento (non si può viaggiare) oltre al già menzionato problema relazionale per il quale non si può accettare un invito a cena per paura di cosa potrebbe essere servito. Un esempio dell’estremizzazione del comportamento ortoressico è offerto da quei soggetti che non bevono più neanche l’acqua delle bottigliette e cucinano solo con acqua filtrata (a parte il fatto che una quota dei sali minerali necessari alla dieta derivano proprio dall’acqua di rubinetto, ci si chiede come potrebbero queste persone prendere un aereo). Si perde quindi la capacità di spostarsi, di muoversi: è un limite sociale e vitale.
L’altro aspetto da considerare è che la ricerca e il reperimento del cibo “giusto” ed i metodi di preparazione del pasto “rubano” a questi soggetti molte delle ore della giornata, limitando quindi la possibilità di fare altre cose, tra cui anche gratificarsi o rilassarsi. Se andiamo a valutare poi uno dei consigli base per una corretta alimentazione, cioè la varietà nell’apporto alimentare, questo può essere uno dei fattori maggiormente disattesi dagli ortoressici. Ricordiamo che molte malattie possono sorgere da meccanismi e consumi ripetuti. Si denota quindi, in queste persone, l’esigenza di controllare tutto forse proprio perché non c’è niente di controllabile nella vita e gli eventi del mondo vanno per loro conto. In questa malattia si identifica il riflesso di una società ansiosa in maniera eccessiva.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

sabato 12 maggio 2012

Ortoressia Nervosa 2/3

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Il termine ortoressico deriva dal greco ortos che ha i significati di “diritto”, “giusto”, “corretto” e órexis che vuol dire “appetito”. Di particolare interesse è l’uso dei termini perché i dualismi che si incontrano in questo disturbo che si riflette sul cibo ci illuminano sul fatto che ci troviamo in una patologia che coinvolge la sfera etica: cibo “buono-cattivo”, alimento “giusto-sbagliato”, dieta “corretta-scorretta”, pasto “sano-insano”, cibo che “fa bene-fa male”. Dualismi terminologici che da sempre caratterizzano l’etica. Infatti molto probabilmente quello che fa scaturire questo disturbo riguarda un problema educativo-culturale: da un lato si è abituati a seguire i dettami dell’autorità (ma anche le regole della religione) e dall’altra si viene bombardati dai messaggi dei media, magari contrastanti, e non si riesce più a capire a chi bisogna credere e che cosa è giusto fare. Anche i messaggi in campo alimentare sono però contrastanti, con conseguente perdita della prospettiva, per una personale concezione e percezione, di cosa sia un cibo “sano”.
Si crea quindi un comportamento ossessivo e irrigidito su certe posizioni che porta ad uno sbilanciamento della dieta, più che ad una sotto-nutrizione. Questo è un punto particolarmente importante dato che, per buoni tratti della vita del soggetto ortoressico, dall’esterno non ci si rende conto che c’è qualche problema psicologico che si riversa anche sulla fisiologia, perché il peso corporeo è ancora adeguato alla persona; solo nel momento di eventuali analisi cliniche si scoprono degli scompensi di tipo nutrizionale. Dal punto di vista fisico, le conseguenze dell’ortoressia possono essere svariate, visto che i tipi di diete cambiano da soggetto a soggetto, contemplando restrizioni specifiche a seconda dell’intorno percepito. Le conseguenti carenze che si determinano, purtroppo spesso evidenti solo dopo molto tempo, sono in genere squilibri elettrolitici, avitaminosi, osteoporosi, atrofie muscolari e altri problemi fisici che spesso richiedono lunghi periodi di correzione alimentare per il recupero, talvolta interventi persino di ospedalizzazione, e altre volte sono condizioni irreversibili.
Un esempio di un componente alimentare che può essere frainteso nelle quantità di consumo da un ortoressico, potrebbe essere quello della vitamina A: se viene consumata in dose eccessiva può dare allucinazioni, ma i “dettami” che appaiono sulle riviste patinate dicono di consumare tanta vitamina A perché fa bene alla vista e il carotene, che ne è un precursore, fa bene alla pelle. Si potrebbe sentire un ortoressico che dichiara di bere tanta acqua per “purificarsi”, come in televisione viene ripetuto spesso nelle trasmissioni “sul Benessere”; ma invece bisogna stare attenti perché bere troppa acqua troppo velocemente, magari dopo aver fatto sforzi fisici che hanno fatto sudare, può portare ad iponatriemia. Questi sono solo due degli innumerevoli esempi a cui un ortoressico potrebbe essere esposto a seguito dell’influsso mediatico, ma ci fa capire come ognuno di noi potrebbe fraintendere dettami nutrizionali che ci vengono proposti come dei “toccasana” per la vita, ma invece possono portare al rischio, paventato da molti autori del settore, di una deriva ortoressica della società.
Rimane da capire, nel comportamento dell’ortoressico, questo senso di superiorità e di godimento nel rifiutare il cibo di fronte agli altri, quasi a dimostrare il suo personale coinvolgimento nel mangiare “puro”.
Lo sviluppo nella cultura sociale delle forme complementari di terapia (dieta, sport e movimento ecc.), è un fattore chiave nella diffusione della ortoressia. La ricerca di metodi alternativi alla medicina tradizionale ha individuato nella dieta uno dei più importanti mezzi per il mantenimento della salute. Quello che non è completamente compreso dall’ortoressico è che gli effetti e l’efficacia delle diete sono mediati da fattori genetici e temporali, mentre per lui la dieta diventa un mezzo addirittura salvifico della salute e della vita dell’uomo.
Tra i casi di analisi sociale che riguardano questa malattia ne riportiamo due che ci dimostrano, per il primo che spesso un bias alimentare si riversa anche sui figli, e per il secondo che l’importanza che viene data all’immagine in questa società può essere eccessiva:
- Esistono genitori che per loro sbagliate credenze personali sul cibo (ad esempio che il grasso è sempre cattivo e da togliere dalla alimentazione) causano malnutrizione nei loro figli imponendo una dieta non adeguata all’età dello sviluppo, dove anche componenti considerate dannose (ad esempio per gli anziani) hanno invece la loro funzione.
- Personaggi dello show business, schiavi della loro immagine, controllano in maniera ferrea le loro diete al limite del patologico. Si evince da molti di questi comportamenti un’ansia di fondo personale, ma anche della società intera. Tra l’altro questi comportamenti fanno sorgere altre riflessioni: la prima è che, per l’importanza mediatica che certe persone danno a questi personaggi, i casi di emulazione sono frequenti e gli effetti possono essere catastrofici (specialmente sulle giovani menti); la seconda riflessione è che, per la loro ricchezza, questi personaggi hanno la possibilità di andare oltre il razionale, almeno per periodi più o meno lunghi di tempo, fino al crollo psicofisico che prima o poi arriva, magari quando il riflettori sono ormai spenti ed il vuoto affettivo si è creato intorno a loro (anche perché è proprio un atteggiamento dell’ortoressico quello che lo porta ad allontanarsi da coloro che non condividono la stessa etica alimentare).>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

venerdì 11 maggio 2012

Ortoressia Nervosa 1/3

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Ortoressia Nervosa

L’ortoressia nervosa può essere definita come l’ossessione per il cibo salutare. È considerata un disturbo dell’alimentazione ma non è ancora ufficialmente riconosciuta dal mondo psichiatrico e quindi medico. La sua caratterizzazione ha quindi dei confini ancora piuttosto labili e non se ne conoscono tutte le cause e la sintomatologia. La prima morte ufficiale per ortoressia è quella di Kate Finn, scomparsa nel 2003 (Ravizza, Corriere della Sera, 20 aprile 2006). È una patologia che colpisce maggiormente gli over 30, tende ad essere più diffusa tra gli uomini e tra le persone di buon livello culturale.
L’ortoressia può essere considerato un problema psicologico: nevrosi del mangiare sano. Si tratta di un disordine ossessivo compulsivo della personalità che nasce con una sempre maggiore attenzione alla qualità del cibo (a differenza degli altri tipi di disturbi alimentari che danno invece attenzione alla quantità).
Questa condizione patologica è stata per la prima volta descritta nel 1997 dal medico californiano Steven Bratman. L’ortoressico si impone severe restrizioni alimentari che possono arrivare ad includere il divieto di toccare zucchero, sale, caffeina, alcool, frumento, glutine, lieviti, soia, mais e prodotti lattiero-caseari per non parlare di tutti quegli alimenti che nella lista degli ingredienti in etichetta riportano gli additivi che sono introdotti dalla lettera “E” con il loro numero specifico accanto.
L’ortoressico instaura chiaramente un rapporto distorto con il cibo, iniziando a scartare ogni alimento che viene considerato “cattivo” (idea che è del tutto personale, c’è quindi una percezione distorta). I vegani ed i crudisti sono dei seri candidati per sviluppare questa malattia che si annuncia in modo così ossessivo da portare il soggetto ad un senso di superiorità nei confronti del mondo. Si inizia con l’escludere dalla propria dieta i cibi che entrano in contatto (parola chiave) con pesticidi o con qualsiasi additivo artificiale e pian piano i criteri di ammissibilità diventano sempre più restrittivi. Alla fine l’ortoressico consuma il suo pasto in solitudine (caratteristica comune anche all’anoressia e alla bulimia), si isola socialmente e arriva ad assumere una dieta talmente povera da riportare gravi danni sul piano nutrizionale. Gli elementi che fanno “impressione” all’ortoressico non sono le grida di dolore dell’animale macellato o il colore rosso-sangue delle carni, come accade nel vegetariano, ma è la paura di venire contaminato, avvelenato. Viene quindi esclusa aprioristicamente la capacità del nostro corpo di detossificarsi e di auto-equilibrarsi. Quello che sottolinea l’estremizzazione del comportamento e quindi la nevrosi è il fatto che, tra l’altro, non può esistere una contaminazione zero degli alimenti. Inoltre, le tossicità intuíte sono di vario tipo e quindi la ricerca di un cibo “sano” in assoluto nasconde una nevrosi personale: potrebbe essere una negazione del cibo come piacere mascherato da un falso amore per se stessi e per il proprio corpo.
Detto questo, che ricalca a gradi linee ciò che si può finora trovare a proposito di questo disturbo, si propone anche un’altra lettura: l’ortoressico è una persona che tende ad evitare di entrare in contatto con il mondo che è sporco, pieno di ingiustizie e violento. Il cibo rappresenta l’esterno e non voler sporcarsi significa non voler accettare che il mondo sia ingiusto, corrotto, sporco (comportamento mediato dall’etica personale e da una percezione distorta dell’intorno). Non si vuole accettare la responsabilità di fare certe scelte anche dolorose e difficili, si nega quindi che il corpo abbia la funzione di processare il cibo, dividendone le componenti tra quelle utili e quelle dannose; per corrispondenza l’ortoressico non accetta di dover fare determinati compiti, anche gravosi, e di entrare in contatto con realtà sociali che non condivide o che non riesce ad accettare. Ma il vivere e lo stare con gli altri comporta questo sforzo, vitale e necessario. L’atteggiamento dell’ortoressico è però anche, in altri termini, una paura della morte e non soltanto il non voler prendersi le responsabilità della violenza che comporta la vita.
Un altro elemento di estremo interesse è che l’ortoressia si può leggere anche come la necessità di trovare nuove pratiche spiritual-nutrizionali, necessarie per l’equilibrio psicologico di alcuni soggetti. Solo che l’ortoressico è nel contempo giudice ed imputato di se stesso, in una spirale che porta all’autodistruzione. Il continuo ripetere le sue credenze sul cibo sembra quasi un “mantra” che serve ad occupare la mente per non lasciare lo spazio per affrontare veramente la sua situazione e le sue incongruenze, in una estrema e forte esigenza di coerenza.
Essendo geneticamente “programmati” a credere in qualcosa, persa una stretta connessione con la religione (perché troppo razionali per crederci ancora, con dettami non più adeguati allo sviluppo odierno, troppo pochi con valore assoluto e autorità religiose che non riescono più a mostrare un comportamento coerente), rimane la necessità di qualcosa a cui aspirare e la soluzione è trovata aumentando l’attenzione sulle regole alimentari. Non è detto che tutti gli ortoressici abbiano abbandonato la religione (sarebbe utile un’indagine su questo), ma sicuramente in queste regole trovano un rafforzamento alla loro esigenza comportamentale.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

mercoledì 9 maggio 2012

EXPO 2015 - Il Fatto Alimentare



Prendo spunto da un post del sito “Il Fatto Alimentare” per parlare di una situazione molto interessante che ha valenze non solo nazionali e che riguarda l'etica alimentare ma, soprattutto, la morale ed i flussi informativi ad essa legati: l'EXPO del 2015 sull'alimentazione.

Nonostante io non sia ben visto dai gestori del sito, mi sento di riprendere in pieno l'articolo (leggi qua) del preparatissimo Roberto La Pira che però, secondo me, sconta (guarda caso) un bias etico ed ideologico quando si parla di alimenti e di alimentazione.

Senza divagare, arriviamo al nocciolo del problema: c'è da domandarsi cosa sarà di questo Expo che l'Italia, ma soprattutto Milano, dovrebbe organizzare e per il quale è stato indicato il “sottotitolo” <<nutrire il pianeta – energia per la vita>>.

Secondo La Pira, l'organizzazione è in alto mare e anche dall'esterno, a mio avviso, sembra non esserci una vera idea di fondo.

Il grosso problema di questa situazione, secondo me, è che non si è capito cosa si vuole fare: da un lato c'è l'intuizione del fatto che nel futuro il problema energetico e alimentare creerà davvero dei problemi, dall'altro lato c'è l'esigenza di dare all'Expo una dimensione economica, sia per riprendere i costi dell'investimento da parte del paese ospitante che per far divenire conveniente alle aziende “comprare” ed investire su degli spazi espositivi.

Purtroppo c'è stata una “deriva etica” per quanto riguarda il primo aspetto che ha inficiato la possibilità di strutturare l'evento in una dimensione economicamente sostenibile.

Mi spiego meglio, quando si “vuole salvare il mondo”, cosa che a mio avviso è impossibile, lo si fa principalmente “nella testa della gente”. Cioè mediaticamente si creano delle suggestioni per coinvolgere la gente in questa “ipnosi collettiva”.

Bene, per fare ciò bisogna investire molti soldi, che al momento non ci sono.

Dall'altro lato le aziende che espongono, avranno la voglia di partecipare all'evento perché risulteranno essere coloro che con i loro prodotti potranno trovare la soluzione al problema, o parte dello stesso.

Al momento invece ci troviamo in una fase in cui i principi proposti (del tutto utopici) non si incontrano con i desiderata delle aziende (fare soldi eventualmente anche illudendo il compratore).

L'Expo finirà davvero per essere poco più di una fieretta enogastronomica se non si riuscirà a sterzarne la direzione su obiettivi fattibili facendo incontrare gli interessi di tutti, nonché quelli dei visitatori che devono trovare, incontrare, vedere cose che non potrebbero altrove ed è chiaro che in questo periodo di multimedialità è un fatto che aggrava la situazione per chi lo deve organizzare.

In conclusione, faccio un esempio, spero chiarificatore: la chiave di volta dell'esposizione non si trova perchè i semi-archi della struttura (ideologica) hanno dei raggi che non si possono comparare nemmeno per dimensioni e la costruzione crolla....

Andrea Meneghetti

giovedì 3 maggio 2012

Analisi del Vegetarianismo 4/4

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Il bias etico del vegetariano

I vegetariani e gli animalisti evidenziano nel loro comportamento un imponente bias etico: pensano di essere nel giusto e soprattutto soffrono se vedono altri che si comportano in maniera diversa da loro. Alle volte pretendono di imporre le loro idee agli altri, influenzando la politica (cosa più che legittima) ma anche facendo azioni di provocazione che alle volte sfociano in violenza pura, perpetrate anche nei confronti di persone, e considerano se stessi come dei martiri. Il bias etico si presenta nella valutazione dell’ambiente esterno e della vita. L’etica è soprattutto lotta per la propria vita, per lo spazio personale e della comunità di riferimento. Ma lottare per lo spazio della comunità è cosa diversa dal credere che con la propria azione si possa salvare il mondo e tutti gli animali della terra. Ed è fuori da ogni sano rapporto con la vita metterla a repentaglio se non è in funzione della propria sopravvivenza.


Vegetarianismo e giovane età

I bambini non sanno da dove venga il prodotto alimentare che si trovano nel piatto. Una volta, almeno nella cultura contadina delle campagne italiane (completamente diverso è il quadro sociologico Nord Americano), il ciclo di allevamento dell’animale era palese ed era fondamentale che fosse conosciuto anche per il benessere delle comunità.
Oggi le giovani generazioni non sono a conoscenza delle sofferenze degli animali e, quando le realizzano, per alcuni c’è un vero e proprio rigetto della realtà con conseguente rifiuto del consumo di carne (si tratta di percentuali marginali della popolazione).
Alla base di questa situazione ci sono comunque due fattori che vanno sottolineati per le loro implicazioni etiche:
- La società, tanto per dettami religiosi quanto per marketing pubblicitario, promuove la cultura della fratellanza e della solidarietà. Posto che già geneticamente siamo predisposti a comportamenti solidali e di protezione nei confronti dei nostri simili, il fenomeno supera di gran lunga le esigenze biologiche intraspecifiche e razziali. Si è instillato nella testa della gente che bisogna aiutare gli altri (anche se non si sa chi siano) ma soprattutto che non ci deve mai essere sofferenza; in particolare la sofferenza di qualche essere vivente (quindi anche degli animali) è vista come qualcosa di sbagliato, da combattere, da far cessare. Questo è un approccio fortemente distorto dato che la vita è sofferenza e lotta per la sopravvivenza. Il disegno che sottende questi fenomeni culturali è quello di un maggiore controllo delle popolazioni e di un loro efficace sfruttamento anche dal punto di vista delle rimesse in danaro, di volontariato e di acquisti condizionati.
- I film, i telefilm, la televisione, i cartoni animati, le pubblicità ci mostrano “l’amicizia” nei confronti degli animali che vengono rappresentati umanizzati, buoni, teneri, indifesi e con sentimenti. Anche questa è una distorsione della realtà, tanto che sono numerosi i casi in cui persone che pensano agli animali selvatici come a simpatici “cuccioloni” finiscono poi per subire delle conseguenze anche gravi. È famoso il caso di un visitatore di uno zoo cinese che voleva abbracciare un orso ed è stato poi assalito (l’orso tra l’altro è uno degli animali più pericolosi per l’uomo). Ma altri casi relativi ad altri tipi di animali si sono verificati in parchi pubblici dove i turisti si sono avvicinati troppo alle specie selvatiche. Va poi considerato che anche i cani ed i gatti, seppur domestici, regolarmente mordono, graffiano, assalgono gli esseri umani.

Seppur fortemente informata ed attenta alla vita degli animali, la popolazione appare dunque complessivamente infantile ed immatura, a prescindere dall’età anagrafica.
Molto frequente è nei bambini il rifiuto di alcuni tipi di carne a seguito dell’esperienza dolorosa o sgradevole subita mangiando della carne (ad esempio aver rigettato il pasto perché il prodotto era avariato; carne quasi cruda; problemi intestinali anche gravi a seguito del consumo di carne o averne dato la causa alla carne mangiata contestualmente).
Altrettanto importante (meriterebbe un capitolo a sé stante), è il caso nel quale i genitori impongono ai figli, soprattutto se in tenera età, una dieta vegetariana. Questa scelta è molto rischiosa sotto vari punti di vista, il principale dei quali è la carenza nutrizionale, oltre al fatto che si va ad imporre ai figli un’etica e una visione del mondo che li renderà schiavi piuttosto che persone libere ed in salute. Si fa notare che questa scelta etica prende un caratteristica addirittura anti-vitale e gravissima dal punto di vista della salute quando si imponesse ai figli una dieta di tipo vegano: dei bambini sono morti perché i genitori hanno loro imposto una dieta troppo restrittiva, basta pensare al caso della bambina francese Louise Le Moaligou.
Nonostante esperti e luminari suggeriscano questo tipo di alimentazione per i bambini, fino dalla più tenera età, è il caso di mettere in guardia tutti, di farci un pensiero approfondito. I bambini figli di vegetariani potrebbero avere problemi di salute e di sviluppo, anche cerebrale, se non si nutrissero in maniera corretta; i vari testi di pediatria consigliano a coloro che fanno questa scelta alimentare per i propri figli di farsi strettamente seguire da un medico. Quello che stride è il fatto che la nutrizione dovrebbe essere qualcosa di sufficientemente “naturale ed istintivo”; difficilmente i nostri avi avevano bisogno di queste sovrastrutture sociali per riuscire ad allevare i propri figli. Questo palesa che alla base c’è qualcosa che non quadra.
Le informazioni distorte che vengono passate ai figli avranno conseguenze sulla percezione della vita e degli animali. Questi genitori, per la propria instabilità psicologica e per gratificare la loro etica, fanno del male ai propri figli. In questo caso si potrebbe davvero dire che è un’etica malata; è una struttura cerebrale che va in cortocircuito, un software che non gira più bene se non riesce a salvaguardare la vita personale e quella della propria prole (per salvare invece quella di altre specie animali).>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)