sabato 14 aprile 2012

Spreco alimentare e perdita fisiologica 3/4

<< Chiarito che le eccedenze sono qualcosa di fisiologico, per assurdo anche in società povere, non è detto che queste siano senza conseguenze o che non vadano considerate. Le domande da porsi ora sono: Chi paga le eccedenze? Nel prezzo di vendita praticato agli alimenti, deve essere compreso anche lo smaltimento dei rifiuti? Chi paga lo smaltimento delle eccedenze (tassa rifiuti e raccolta)?
È più giusto far pagare un sistema di riutilizzo delle eccedenze ai consumatori o pretenderlo dai produttori? L’impatto delle eccedenze quando diventano rifiuti – in termini di anidride carbonica, trasporti, inceneritori ed eventualmente anche dell’utilizzo di manovalanza sfruttata – va fatto pagare di più?
Capiamo, prima di tutto, che l’esigenza economica di ridurre gli sprechi sta principalmente nel fatto che il cibo è un bene limitato e va allocato nel miglior modo possibile. Il secondo punto è che, se non ben allocato, il cibo da risorsa diventa rifiuto che come conseguenza ha un costo per il suo smaltimento ed un impatto di tipo ambientale.
Quindi il riutilizzo delle eccedenze comporta un costo e bisogna capire da chi e come può essere pagato.
Una  proposta fatta da molti è che sia pagato, con una piccola maggiorazione del prezzo, dal consumatore. Questa soluzione può essere valida, ma funziona solo se fosse una imposizione coercitiva, tramite una imposta comunale, regionale, o statale. Anche se alcune storture del sistema nascono proprio da una eccessiva richiesta di varietà da parte del consumatore, colpendo in maniera indiscriminata chi consuma si finirebbe col colpire anche i virtuosi. E poi, su quali prodotti applicare queste imposizioni? Il pane, come alimento base, ha un impatto ambientale e di costi energetici produttivi ben inferiore di uno yogurt o di una merendina, perché non ha imballaggi, deriva direttamente dalla materia prima grano, ha pochi ingredienti, viene venduto nella maggior parte dei casi nel luogo di trasformazione della farina. E l’obiettivo non è colpire le fasce deboli, quanto, invece, favorirle.
Un’altra soluzione, che forse potrebbe dar luogo a fenomeni di tipo virtuoso, è agire in termini di normativa fiscale:
- introdurre una tassa di smaltimento rifiuti in base a ciò che si conferisce e  non ai metri quadrati di superficie dei negozi;
- applicare sconti sulle tasse dei rifiuti in base a quanto consegnato alle associazioni no-profit;
- ridurre il costo del lavoro per i dipendenti dedicati ad un servizio di selezione e recupero degli alimenti (il costo della manodopera ha un’altissima incidenza in questi casi).
La necessità di un intervento anche amministrativo, in termini di azioni contro lo spreco, si giustifica anche nella riduzione di emergenze sanitarie (come quelle avvenute a Napoli dove non veniva più raccolta l’immondizia e non c’era la raccolta differenziata).
L’ipotesi appena richiamata, favorire lo smaltimento dei rifiuti con leva di tipo fiscale, è ascrivibile al campo della qualità della vita e della sanità pubblica che in ultima analisi va ad influenzare tutti.
La tensione verso comportamenti di salvaguardia dei prodotti alimentari, che sono limitati in quantità, e di metodi produttivi eco-sostenibili è importante perché si riducono moltissime problematiche.
Le prese di posizione contro lo spreco, essendo mediate da una percezione etica. possono anche essere particolarmente forti per alcune parti sociali come le istituzioni religiose (ad esempio Caritas e Banco Alimentare, Siticibo a Milano ecc.), o universitarie (ad esempio Università di Bologna con il progetto Last Minute Market) o gruppi auto-costituiti (Gas e Gap). Tutte queste realtà hanno diverse ragioni per assumerle: solidarietà, risparmio individuale, minore impatto ambientale, e tutte progettano un sistema che riesca a realizzare i loro obiettivi, che riesca a gratificare la loro etica.
Le soluzioni messe in atto dai vari attori sono dunque molteplici:
- Gruppi Gas (gruppi di acquisto solidale) e Gap (gruppi di acquisto popolare). Agiscono in modo da  comperare solo le quantità necessarie a prezzi più convenienti del supermercato, acquistando grosse quantità tutte in una volta o sotto forma di costanza di approvvigionamento. Come conseguenza c’è meno spreco. Bisogna dire che effettivamente il singolo nucleo famigliare può risparmiare ma bisogna anche considerare che c’è una parte di lavoro che viene fatta sotto forma di volontariato (non remunerato); in altre parole,  il lavoro del dettagliante (assortimento e divisione delle merci), normalmente fatto dai negozi e negozianti, è attuato dai volontari del gruppo.
- Caritas e associazioni umanitarie. Ridistribuiscono le donazioni fatte dai singoli o da enti privati per aiutare chi ha bisogno. Viene recuperata una parte di prodotto alimentare che potrebbe essere gettata o distrutta perché in scadenza o non venduta.
- Last Minute Market e Siticibo. Recuperano prodotti freschi in scadenza o trasformati da poco tempo e li distribuiscono a chi ne ha bisogno o ne ha fatto richiesta.
È importantissimo sottolineare, fin da subito, che l’unica cosa che garantisce a queste iniziative di funzionare è una sostenibilità economica e non ci sono ragioni filantropiche che tengano, anche le più alte, che possano prescindere da questo presupposto. In altre parole, queste attività devono avere una copertura di tipo economico, inserite in un determinato quadro produttivo, per riuscire a produrre fenomeni virtuosi e non rimanere desideri scritti sulla carta che nascono per giustificare un disagio etico.
La condizione sine qua non della sostenibilità economica può essere quindi raggiunta anche con un intervento della autorità pubblica. Le funzioni sociali per cui uno Stato deve e trova conveniente intervenire su questa materia sono:
1- risparmio nei costi di smaltimento rifiuti
2- ridotto impatto ambientale (meno discariche)
3- ridotte spese di assistenza sociale
4- mantenimento della “pax sociale” tramite la distribuzione gratuita o a prezzi di favore di cibo. Si tratta di uno strumento antico: «Nella Roma di Augusto il grano era distribuito gratuitamente a 200 mila cittadini residenti e anche nella Costantinopoli bizantina si mantenevano alcune eredità romane, come la cottura del pane in panetterie “statali” e la distribuzione economica o addirittura gratuita agli aventi diritto» (Colombo e Onorati, 2009:44).
5- mantenimento della biodiversità sociale.
Anche la GDO inizia a trovare conveniente donare i propri prodotti inutilizzabili o in scadenza: «Recentemente le grandi aziende alimentari hanno iniziato a supportare sistemi di beneficenza e hanno aiutato ad istituzionalizzare le donazioni dei surplus o dei cibi invendibili» (Lang et al., 2009:266-269). Secondo Lang, queste sono delle soluzioni (risolutive) alla povertà e alla carenza nutrizionale.
L'approccio per questo libro è chiaramente differente da quello del professor Lang, in quanto non si crede assolutamente che questi problemi di distruzione dei surplus potranno mai essere risolti, ma si considerano strutturali della società. Le soluzioni di cui sopra sono enunciate da varie istituzioni per un fatto di gratificazione etica, per allontanare il disagio psicologico e continuare a far credere che si possa fare e si stia facendo qualcosa.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

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