lunedì 30 aprile 2012

Analisi del Vegetarianismo 3/4

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Detto questo, possiamo proporre una classificazione dei diversi tipi di vegetarianismo:
Vegetarianismo di tipo I: volontario, di natura etico-empatica, è legato al concetto di rispetto della vita degli animali. Chi si impone una dieta di tipo vegetariano considera disdicevole la sofferenza degli animali che vengono macellati per il consumo umano. Può anche essere legato a scelte religiose che impongono delle limitazioni al consumo di carne.
Vegetarianismo di tipo II: volontario, per ragioni ecologiche ed ambientali. Viene scelta una dieta di tipo vegetariano perché si seguono filosofie che propongono come soluzione ai problemi ambientali l’eliminazione del consumo di prodotti di origine animale che hanno un grosso impatto ecologico e che non sono convenienti dal punto di vista della conversione carboidrati/proteine. Oppure si evita di consumare prodotti di origine animale per salvaguardare l’ambiente naturale. «Al fondo del vegetarianesimo vi è, in senso lato, un imperativo categorico, una sorta di obiezione di coscienza alimentare che gratifica chi la pratica in quanto consolida la convinzione di contribuire con la propria scelta al rispetto dell’ecosistema» (Franchi, 2009:87).  È il dubbio etico di coloro che ritengono che l’allevamento intensivo animale per la macellazione ed il consumo umano abbia un impatto negativo sull’ambiente.
Vegetarianismo di tipo III: obbligato dalla condizione economica. Ci sono aree del pianeta o fasce di popolazione che vivono la condizione vegetariana per la particolare condizione economica o sociale, «a differenza di quanto avviene ancora nei paesi in via di sviluppo, dove una larga fetta della popolazione è per lo più vegetariana non per principio ma per povertà» (Beardsworth, 2004:547).
Vegetarianismo di tipo IV: scelta salutista. Deriva dal dubbio etico di coloro che percepiscono come un eccessivo consumo di carne possa portare tutta una serie di malattie come quelle cardiovascolari o la gotta.
Vegetarianismo di tipo IV bis: esigenza dietetica. Può essere imposta una dieta di tipo vegetariano a seguito di una patologia o di un periodo particolare di salute.
Vegetarianismo di tipo V: scelta gustativa. Alcune persone non sopportano o non gradiscono il gusto e la consistenza della carne e così ne evitano il consumo o semplicemente non la cercano e non la includono nella propria dieta. Non è un’imposizione di tipo etico od ideologico, almeno all’apparenza.
Vegetarianismo di tipo VI: ribellione ai genitori, all’autorità e alla società. Attraverso l’accoglimento delle regole e dei dettami del vegetarianismo, alcuni giovani manifestano il loro disagio od il loro senso di ribellione alla società ed ai genitori.
Vegetarianismo di tipo VII: scelta politica. Per una questione di giustizia sociale (tutti devono avere uguali possibilità) alcune persone vedono nel consumo della carne uno spreco di risorse che potrebbero essere utilizzate per sfamare i poveri del mondo ed allora cambiano la loro dieta verso una scelta di tipo vegetariano.
Vegetarianismo di tipo VIII: scelta spirituale. È la scelta di coloro che per esigenza di credere in qualcosa abbracciano l’etica vegetariana.

Pur non rappresentando una tipologia a sé (perché è una caratteristica presente in molti dei casi precedenti), è importante ricordare che il vegetarianismo ha molto probabilmente anche una componente di rifiuto alla modernità: «D’altra parte, l’enfasi posta dal vegetarianismo etico sullo sviluppo delle emancipatory politics e quella posta dal vegetarianismo come stile di vita sulla prevenzione dei rischi e sull’autoperfezionamento sono entrambe coerenti con le preoccupazioni e le ossessioni della modernità avanzata» (Beardsworth, 2004:559). Si può affermare che alla base del comportamento vegetariano esistono quindi delle ansie legate alle forme di progresso della società che non sempre vengono capite o che non si riescono a gestire sia in termini operativi ma anche per quanto riguarda la competizione che esse portano di conseguenza. Estremizzando, si può ipotizzare una “stanchezza mentale” od un irrigidimento (quindi opposto al concetto di plasticità neuronale) del soggetto nel confronti del nuovo e dello spirito di adattamento.
L’altra importante fonte del vegetarianismo è l’esigenza di sostituire la mancanza di una religione a seguito della secolarizzazione della società: «Le condizioni ideologiche per la diffusione del vegetarianismo sono legate al processo di secolarizzazione delle società occidentali, in particolare alla perdita di influenza dell’etica giudaico-cristiana per quanto riguarda l’impiego degli animali come alimento» (Beardsworth, 2004:552). In questo caso è la responsabilità della morte di un animale, senza una assoluzione “superiore”, a rendere il consumo di carne davvero problematico; manca la giustificazione morale di un atto violento, per il quale non tutti sono preparati psicologicamente o per il quale non si riesce a non provare pena.
I dettami religiosi danno infatti giustificazione etica allo sfruttamento e all’utilizzo degli animali sia per il lavoro che per il consumo alimentare: «[...] sia il Giudaismo che il Cristianesimo promuovono l’idea che agli esseri umani spetti per concezione divina il dominio sul mondo naturale: è quindi Dio a legittimare l’impiego di animali come fonte di nutrimento, seppur all’interno dei limiti imposti dalle prescrizioni religiose e alimentari.» (Beardsworth, 2004:546). Ma quando tali prescrizioni vengono meno può nascere il problema; in altre parole, la religione autorizza lo sfruttamento delle forme animali, nel contempo individuando anche delle forme di limitazione allo sfruttamento o al consumo che potrebbero inficiare la sostenibilità produttiva o salutistica. C’è quindi il contenimento di comportamenti che potrebbero diventare eccessivi anche in termini di sopportazione, ma – mancando la possibilità di basarsi sul supporto e su un contrappeso religioso non più adeguati al livello di sviluppo della società (anche a seguito dell’aumento dell’istruzione media o dell’invasività della proposta mediatica) – alcune fasce di popolazione risolvono il dubbio etico in modo alternativo scegliendo tra i nuovi movimenti culturali e pseudoscientifici presenti in quel momento, fra i quali troviamo anche il vegetarianismo.
Una terza fonte che struttura questo comportamento alimentare è il rifiuto della morte in termini generali, che quindi non consente l’accettazione nemmeno della morte degli animali; Beardsworth (2004:561) la definisce «una particolare forma di necrofobia, legata al fatto che nella cultura edonista della modernità avanzata la morte è un tabù». Più che altro la società non trasmette più gli elementi culturali tramite i quali la morte possa essere “metabolizzata” e accettata. La percezione della stessa è caotica ed infatti altre forme di morte, non percepite ma ugualmente presenti (delle piante, di lavoratori nella produzione, del vicino di casa), sono collocate in un arco comportamentale molto differente e non coerente ad un occhio esterno, ma funzionali a chi le attua.
Di conseguenza, considerando le tre fonti appena richiamate è possibile trovare una chiave di volta di tutto il ragionamento: «In questo senso le ragioni dei vegetariani sembrano fare la loro parte nel mantenimento di quella che alcuni intervistati definiscono “pace mentale” [...]» (Beardsworth, 2004:553). Il richiamo alla “pace mentale” potrebbe anche essere inteso come il parallelo di quello che qui abbiamo definito “equilibrio psicologico” includendo completamente il vegetarianismo nella Teoria dell’Etica Neurale.
Infatti pare che i vegetariani abbiano particolari esigenze psicologiche: «[...] diversi studi hanno messo in evidenza alcuni dei tratti della personalità, dei valori e delle convinzioni caratteristiche dei vegetariani. Ad esempio, una ricerca condotta in Nuova Zelanda (Allen et al., 2000:417-420) suggerisce che i vegetariani diano più importanza a concetti come “uguaglianza”, “pace”, “giustizia sociale” e allo stesso tempo approvino meno le idee di “dominazione gerarchica”, “distanza emozionale”, “razionalità” rispetto ai non vegetariani» (Beardsworth, 2004:555). Questa è probabilmente la conseguenza di una struttura particolarmente empatica del cervello dei vegetariani.
Questa forte capacità empatica può portare alla scelta di un cambiamento etico per trauma emotivo (come già sottolineato) verso una scelta vegetariana, che alle volte «nasce da una particolare “esperienza di conversione”, innescata dall’essere stati testimoni diretti o indiretti di qualche aspetto doloroso dell’allevamento, oppure dall’improvviso collegamento mentale tra un prodotto alimentare e l’essere vivente da cui deriva. Secondo Jabs (1998), infatti, le dinamiche del processo di conversione implicano il tentativo di ristabilire una coerenza interiore, cioè di affrontare il fenomeno di dissonanza cognitiva provocato dall’acquisizione di informazioni “scomode” sulla produzione e la lavorazione della carne» (Ibidem). Quindi ancora una volta emerge l’esigenza di trovare una coerenza interiore, in base alla percezione ed al senso di equità e di giustizia personale. Ma chi ha un forte senso di equità convive sempre con grandi sensi di colpa: «[...] l’adozione di una dieta vegetariana potrebbe essere interpretata come uno strumento per far fronte al senso di colpa che si può provare consumando carne» (Beardsworth, 2004:561).
E non dimentichiamo che il senso di paura che deriva dal consumo di carne è un sentimento diverso dal senso di colpa: «Il cibo, ad esempio, è necessario all’uomo per conservare forza e salute, ma allo stesso tempo può introdurre nel corpo tossine e organismi portatori di malattie […]» (Beardsworth, 2004:559).
Per completezza di ragionamento è doveroso dire che anche l’utilizzo di piante determina la morte delle stesse, anche se non viene percepito. Infatti, nel momento della trebbiatura, non tutte le piante hanno finito il loro ciclo vegetativo, anche se per nostre convenienze nello stoccaggio è meglio che queste piante siano per la maggior parte morte. Se invece vogliamo produrre insilati da mais, la pianta è in pieno stato vegetativo e così ne causiamo la morte. Da questo si possono fare due deduzioni: 1) L’uomo, come essere vivente, per sopravvivere, sfrutta altre forme di vita. Tutte le forme di vita, in qualche modo hanno bisogno ed utilizzano altri esseri viventi. 2) La percezione delle varie forme di vita non è uguale per tutti.
Per quanto riguarda gli animali, per consumarli potremmo aspettare che muoiano di vecchiaia come fanno in Tibet con lo yak, non servirebbe ucciderli. Il punto sta nel considerare la valenza che hanno la morte e l’uccidere nella mente umana. Per un fatto di sopravvivenza e di competizione evolutiva, nel nostro cervello le connessioni nervose ci dicono che non dobbiamo uccidere un nostro simile, e ciò è rinforzato da patti sociali che mantengono l’equilibrio della società (per inciso, la legge); nel momento in cui identifichiamo “vicino” anche un animale per una aumentata percezione dello stesso, anche a seguito di una maggiore ricchezza socio-culturale e alimentare, si crea un dubbio etico: come mi devo comportare?: «In termini etici quest’ultimo paradosso [produrre alimenti porta quasi sempre all’uccisione dell’animale] è particolarmente provocatorio e impegnativo per il consumatore, dal momento che lo costringe a confrontarsi con la sua condizione mortale. In ogni società tradizionale esiste un insieme di meccanismi culturali per proteggere gli individui dal senso di colpa e dall’ansia che questo paradosso può ingenerare, e tra essi compaiono anche quelle credenze religiose che legittimano l’utilizzo di animali per nutrirsi (Beardsworth, 1995)» (Beardsworth, 2004:560).
Dunque i dettami religiosi e altre forme culturali (come il vegetarianismo) servono sia come allontanamento della responsabilità delle azioni di morte che come mantenimento dell’equilibrio psicologico, anche a livello del consumatore. La coerenza delle proprie azioni è molto importante per la sanità mentale dell’uomo, per ottenerla esistono quindi strumenti di vario tipo (culturale, che abbiamo più volte richiamato, o puramente psicologico, a totale scopo funzionale): «Nelle società moderne servono allo stesso scopo sia i meccanismi psicologici come la  “dissociazione”, per cui gli animali destinati a trasformarsi in cibo per l’uomo sono considerati quasi oggetti inanimati (Plous, 1993), sia meccanismi culturali (operanti nella lavorazione degli alimenti, nel packaging e nell’etichettatura) che riescono a mascherare o minimizzare l’origine animale di molti prodotti» (Ibidem). Il tutto per alterare o creare una determinata percezione del prodotto da parte del consumatore, che deve rimanere convinto di una condizione di vita armoniosa e gratificante, quasi di sogno. La destrutturazione dell’animale è funzionale a ridurre la percezione dell’animale ammazzato; il packaging con i suoi colori, soprattutto per quel che riguarda i prodotti pronti, non consente di associare l’animale morto al prodotto acquistato.
In conclusione: o si hanno degli elementi culturali per giustificare il processo violento che serve per procurarsi il cibo, oppure si cerca di negare e di evitare questo processo. Il vegetarianismo rappresenta questa seconda opzione.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

lunedì 23 aprile 2012

Analisi del Vegetarianismo 2/4

<< Il continuum del Vegetarianismo

Quando si analizza il fenomeno del vegetarianismo ci si rende conto che ne esistono diverse versioni, e questo ci dice ancora una volta che ognuno trova la sua risposta ad un disagio psicologico in maniera differente ed autonoma, anche se c’è una direttiva comune dalla quale tutti attingono. Ogni persona che si definisce vegetariana ha le sue “regole” sugli alimenti da consumare, creando quindi sotto-categorie di consumatori anche piuttosto variegate, e suscitando delle diatribe nella stessa popolazione dei vegetariani. Infatti tra coloro che si definiscono vegetariani c’è chi consuma il pesce ed alle volte chi accetta di consumare pollo. Abbiamo già spiegato, dal punto di vista percettivo, questa situazione parlando del grado di sviluppo neuronale dell’animale, ma coloro che si definiscono vegetariani e consumano anche pesce e pollo probabilmente non identificano e non percepiscono questi esseri viventi come animali da salvaguardare a tutti gli effetti, non essendo essi dei mammiferi (a differenza di bovini, suini ed ovini); in effetti lo sviluppo neuronale di pesce e pollo sono inferiori al nostro, e quindi sono delle specie “più lontane” dal punto di vista evolutivo e genetico.
Ma quello che interessa maggiormente in questa parte, è far emergere l’esistenza di una continuità di comportamenti o casistiche alimentari che va ben oltre la definizione e l’inclusione nella categoria di vegetariano: «Può essere corretta e utile, allora, la definizione di un continuum del vegetarianismo sulla base delle diverse esclusioni alimentari» (Beardsworth, 2004:547). Per assurdo, coloro che consumano anche pesce ed un po’ di pollo pur definendosi vegetariani, non differiscono molto dal punto di vista alimentare da coloro che evitano le carni rosse (perché ad esempio non ne accettano il gusto) ma che non si dichiarano vegetariani.
Come evidenzia Mepham (2008:167), è variegato l’universo del vegetarianismo: alcuni che si definiscono vegetariani spesso consumano certi prodotti animali, come latte e uova (ovo-latto vegetariani); altri mangiano pesce (che guarda caso non ha carni di colore rosso e non fa rumori o non piange quando muore) e alcuni mangiano pollo (che guarda caso è meno evoluto neuralmente dei bovini). L’appartenenza ad una o all’altra categoria è fondamentalmente una definizione fittizia ma che aiuta a fare ordine in un approccio etico piuttosto articolato nelle sue ragioni e nelle sue declinazioni, anche per chi studia questi fenomeni: «[...] nell’ambito delle definizioni soggettive, troviamo ugualmente una gran varietà di regimi di astensione di fatto: da chi si ritiene vegetariano o vegetaliano  ed esercita effettivamente esclusioni rigide ed estese, a chi paradossalmente si ritiene vegetariano ma consuma in realtà più alimenti di derivazione animale rispetto chi non si definirebbe tale» (Beardsworth, 2004:548). Ciò conferma ancora una volta che l’etica è una ricerca di coerenza personale più che una condizione effettiva del soggetto.
Si è quindi capito che la definizione di vegetariano ha dei confini molto labili o comunque non definiti: «La flessibilità e la vaghezza delle auto-definizioni dei vegetariani emerge chiaramente nella ricerca condotta nel Regno Unito da Willets (1997), che ha rilevato una notevole sovrapposizione a livelli di principi e di condotta alimentare tra vegetariani e consumatori di carne. Uno studio su un gruppo di vegetariani americani (Jabs et al., 1998) ha dimostrato che le “debolezze” rientrano nella normalità, sono un dato di fatto per molti: in altre parole ci sono situazioni in cui vengono violate le regole dietetiche e di esclusione (spesso con forti sensi di vergogna) e c’è bisogno del controllo sociale esercitato dalle norme del gruppo di vegetariani a cui si appartiene per riuscire a mantenere la propria identità» (Ibidem). Questo aspetto è molto interessante perché tale atteggiamento pone il vegetarianismo accolto come una religione e un’esigenza di appartenenza in nome della quale si accetta una forzatura psicologica per aderire a principi a cui si demanda la responsabilità delle proprie azioni.
La scelta di collocarsi in una od in un’altra categoria non è casuale, ma dipende da quali dubbi etici vengono presi in considerazione a seconda della sensibilità e dell’empatia che il singolo sviluppa: «Il vegetariano che continua a consumare latticini e/o uova deve fronteggiare il fatto che la produzione di questi alimenti comporta inevitabilmente l’uccisione di vitelli e pulcini maschi in eccesso e che i metodi di produzione intensivi (in realtà anche quelli tradizionali) potrebbero comportare effetti molto negativi per il benessere degli animali» (Beardsworth, 2004:562). Visto che l’equilibrio si raggiunge a livello personale, per coloro che non conoscono le condizioni di allevamento degli animali il problema non si pone. Per gli altri, se non viene trovato un equilibrio tra etica, percezione e comportamento, c’è anche la «posizione vegetaliana, che evita tutti i prodotti animali» (Ibidem) e così via, creando anche altre categorie o personali scelte alimentari sempre più restrittive finché non si riesce a trovare un equilibrio con se stessi (anche se alla base di questo comportamento c’è una nevrosi o un bias etico).
Ed infatti, man mano che si introducono nuovi spunti di dubbio etico, l’unica possibilità è quella di trovare una coerenza a livello personale e non assoluto: «Anche se i vegetariani volessero evitare tutte le carni, non dovrebbero evitare la responsabilità per il modo in cui gli animali che procurano alcuni dei loro cibi vivono o muoiono» (Mepham, 2008:169). Quindi, se chiaramente è impossibile distinguere chi sfrutta e chi non sfrutta gli animali, la giustificazione etica ricercata dal vegetariano deve essere “passabile” o “credibile”, con lo scopo di mantenere il suo senso di “giusto” ma non serve che ciò lo sia veramente o lo sia anche per gli altri, basta che lo sembri a lui stesso. Così nel momento del consumo si sentirà in pace con la sua coscienza o non gli farà “impressione” pensare alle possibili sofferenze dell’animale che ha prodotto il suo alimento.
Ma chi non trova l’equilibrio deve passare a categorie più restrittive come ad esempio i vegani «che rifiutano tutti i cibi di origine animale, ad esempio anche il miele. Ma anche la dieta vegana e/o lo stile di vita non sono immuni da critiche del loro impatto etico sugli animali. Per esempio, nei sistemi arativi, l’uso di trattori può schiacciare i topi di campo, al raccolto delle coltivazioni la rimozione della copertura del terreno toglie la protezione ai piccoli animali dai loro predatori, mentre i pesticidi possono avvelenare gli uccelli [...]» (Ibidem).
E con questi esempi potremmo proseguire ulteriormente per far risaltare maggiormente questo continuum etico ma anche l’impossibilità, di fatto, dell’esistenza di un comportamento etico assoluto. È interessante far notare come, finché non vengono richiamati dei potenziali dubbi etici, la posizione vegana risulti in equilibrio, “giusta”. Il punto è, invece, che “occhio non vede, cuore non duole” cosicché l’importante è che la sofferenza e l’ingiustizia siano mascherate (o non percepite) perché un alimento venga accettato, nei limiti del proprio livello base (di accettazione), che è diverso per ognuno di noi a seguito della propria sensibilità, cultura, esperienza eccetera. Per “livello base” si intende il rapporto tra le informazioni ricevute e la percezione che si è creata rispetto al proprio equilibrio psicologico, cioè le condizioni che devono essere soddisfatte per l’accettazione di una condizione o di un alimento. L’ingiustizia e la violenza devono poter essere giustificate in qualche maniera, oppure devono essere eliminate dalla vista, per far sì che qualcosa venga accettato. Non è necessario che vi sia coerenza reale, ma essa deve essere formale o sostanziale, a seconda dei diversi gradi di percezione dell’intorno.
Occorre sottolineare che tali comportamenti nevrotici possono essere sostenuti e mantenuti da favorevoli condizioni economiche e culturali di contorno; in altre parole, se si ha un buon reddito o si appartiene ad una famiglia benestante, c’è la possibilità di sostenere stili di vita che gratifichino la propria etica e soprattutto consentono di escludersi dalla crudezza della vita. Ma, nel contempo, è vero che anche una società benestante consente l’esistenza di sacche di popolazione che non risolvano mai la loro nevrosi interiore.
Sono i media ed i vari mezzi di informazione che influenzano la percezione e l’etica del vegetariano raccontando, informando, dando delle interpretazioni; montando video e foto si va ad influire sulla percezione dei soggetti e chi ha un’empatia maggiore (ma il discorso forse è più complesso) cambia più facilmente il proprio comportamento per recuperare l’equilibrio psicologico alterato dalle nuove informazioni. In altre parole, nessuno nasce vegetaliano. Per assurdo, se lo fosse stato fin dalla nascita, non avrebbe dovuto nemmeno consumare il latte della propria madre che lo ha nutrito per consentirgli di giungere all’età della ragione nella quale ha fatto scelte drastiche e anti-vitali.
Chiudendo il panorama del continuum del vegetarianismo, ci si deve soffermare sul recente fenomeno della fascinazione esercitata da queste pratiche alimentari sui ragazzi tra i 15 e i 25 anni, «[...] i più affascinati dal vegetarianesimo: secondo un’indagine Ac Nielsen elaborata da Eurispes, entro il 2010 dovrebbero diventare sette milioni gli italiani “no-carne”, i più numerosi in Europa in base alle stime dell’Unione vegetariana europea. Artefici di questo primato, anche i più giovani. Adolescenti che da un giorno all’altro dicono no a tutti gli alimenti di origine animale» (Annachiara Sacchi, Corriere della Sera, 12 maggio 2010).
Sarebbe interessante da capire se queste scelte, invece di derivare da empatia nei confronti degli animali, come avviene nella maggior parte dei casi di vegetarianismo, derivino da una motivazione diversa, cioè dalla ricerca di regole, di certezze, di verità in un mondo ed una società che da messaggi contrastanti, caotici, frammentati che i giovani non riescono a gestire.
I giovani dunque sono coloro che subiscono di più gli effetti del cortocircuito etico della società, visto che sono alla ricerca di una identità e si ribellano alle norme imposte per la necessità di una coerenza etica. Approdare a queste pratiche alimentari fornisce la possibilità di avere regole chiare a cui attenersi, ancor prima di sentirsi rispettosi nei confronti degli altri esseri viventi. Questi comportamenti, però, si portano dietro una serie di problematiche come quella del rischio di carenze alimentari in una fase, quella della crescita, in cui servono proteine ad alto valore biologico (di origine animale quindi) per sostenere lo sviluppo; questi rischi sorgono anche a seguito della non conoscenza della “bilancia” dietetica che in giovane età non può essere ancora completamente compresa ed assimilata.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

domenica 22 aprile 2012

Media, professoroni ed imposizioni al comportamento

La notizia pubblicata dal Corriere della Sera (leggi qua) è piuttosto interessante e riguarda come ci dovremmo comportare per salvaguardare il pianeta e la nostra stessa vita seguendo, tra l'altro, delle scelte alimentari particolari.

Purtroppo, questi dettami, che sono fortemente eticizzati e alle volte derivanti da "Bias Etico", hanno lo scopo principale di "entrare" nella testa dei soggetti che sono in disequilibrio psicologico, influenzandone il comportamento, per poterli controllare meglio.

Una esigenza di questo nasce dal fatto che un soggetto che non è più autonomo nel pensiero ed automatizzato nel comportamento è più vulnerabile e gli si può far consumare ciò che si desidera e fargli credere ciò che si vuole.

Come al solito, sarebbe da capire l'etica di questi "professoroni" che limitano la vita degli altri (perchè seguire i comportamenti che vengono proposti di certo non migliorano la vita del singolo); infatti sarebbe da vedere se tutti i dettami che ci propongono sono seguiti da loro stessi. Se lo facessero davvero, molto probabilmente, non li sentiremmo più gracchiare sciocchezze perchè sarebbero intenti a cercare di sopravvivere (perchè di questo si tratta) e non potrebbero consumare in maniera scellerata come fanno per poter essere presenti sulle testate nazionali ed internazionali.

Di questo si parla , naturalmente ed in modo più completo nel libro. Qui un piccolo passaggio:

<< A questo punto è il caso di gettare una provocazione: bisogna fare attenzione a che queste politiche comunicative non abbiano come risvolto anche una riduzione delle capacità produttive ed intellettive di una parte della popolazione destinata a tornare “schiava”, acritica e a basso impatto ambientale per permettere ad una fascia “privilegiata”, più intelligente ma anche meno sensibile (non soffre per il dolore altrui), di mantenere i propri standard di vita.
Potrebbe ciò derivare anche dal fatto che nei paesi emergenti si stanno formando nuove fasce di popolazione middle class che sostituiranno quelle dei paesi sviluppati?
Il sospetto della malafede, poi, non appare trascurabile considerando che gli stimoli etici al volontariato o al contributo sono gestiti da media che fanno capo a fasce privilegiate della società. Quant’è etico, allora, pretendere un’etica dagli altri per poi sospenderla per se stessi? Di esempi ne è pieno il mondo: il Prof. Veronesi e la sua bella moto, Al Gore e la sua bella casa, Ban Ki-moon e i suoi alberghi a 7 stelle, fanno parte degli opinion leader che chiedono una riduzione nell’uso delle auto, dell’elettricità, dello spostarsi, del consumo indiscriminato, della riduzione dell’impatto ecologico, e sono gli ultimi ad agire in tal senso. Se fossero coerenti con i loro proclami, il giorno dopo non dovremmo più vederli in televisione e sui giornali; il loro scopo non è fare il bene del mondo e delle genti, ma piuttosto il loro. 
E come al solito non c’è niente di sbagliato in questo. Per assurdo, anche se appare difficile da accettare, è il comportamento più etico in assoluto, perché difende se stessi a scapito degli altri.>>  (Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

Nell'articolo all'oggetto, l'autore è Fulco Pratesi (del quale mi pare di ricordare qualche problema giudiziario) e sulla stessa pagina c'è la pubblicità delle attività della ditta Barilla, che guarda caso, ha a suo libro paga un certo Carlo Alberto Pratesi, una assonanza di nomi che stona in maniera incredibile e conferma ciò che ho detto fin'ora: con queste campagne mediatiche stanno vendendo qualcosa; non sta a me capire cosa, io vi ho presentato il come.

Nella stessa pagina web, nel momento della creazione di questo post (22/04/12), ci sono dei link ad un libro pubblicato con la collaborazione della Barilla: sono riuscito a scaricarlo e le cose scritte all'interno sono un mucchio di "bugie" che però sono molto importanti sia per strutturare la società (che così maschera una realtà imbarazzante) che per dare la possibilità all'azienda e ai vari soggetti della catena coinvolti, di pulirsi l'immagine (l'azienda) o di scaricarsi la coscienza (il consumatore).

Per concludere, ci stanno/stiamo raccontando un mucchio di sciocchezze.

Andrea Meneghetti

Analisi del Vegetarianismo 1/4

Iniziamo con oggi la trattazione di un argomento che è forse uno dei cardini su cui si struttura l'etica agroalimentare in quanto anche filosoficamente ha rappresentato uno dei primi punti di riflessione dell'uomo in quanto essere vivente che si rapporta con la vita che lo circonda: Il Vegetarianismo.

L'argomento è trattato con un approccio non usuale, spero sufficientemente scientifico, a tratti un pò complesso. Spero che possiate comunque apprezzare lo sforzo di cercare di rendere fruibili i contenuti.

Buona lettura.

Andrea Meneghetti

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Analisi del Vegetarianismo

Il Vegetarianismo, almeno considerando quello volontario e non obbligato da una condizione economica o geografica, è una risposta comportamentale ad un dubbio etico che si esprime con l’eliminazione della carne dall’alimentazione.
Il vegetarianismo non è un fenomeno recente: «Le prime attestazioni scritte dell’esistenza di forme di vegetarianismo in Europa provengono dalla Grecia classica e riguardano l’illustre matematico Pitagora e i suoi allievi, fedeli alla dottrina della trasmigrazione delle anime che proibiva loro di uccidere altri esseri viventi e nutrirsene» (Beardsworth, 2004:545). Appare chiaro che in questo caso il movente etico che giustificava l’approccio vegetariano derivava da un’alterata (o particolare) percezione della vita con conseguente dubbio etico e scelta comportamentale utile a ricreare equilibrio psicologico nei seguaci della dottrina.
Vari movimenti vegetariani o richiami a forme di vegetarianismo si sono alternati e susseguiti nei secoli, ma: «[...] è solo con la seconda metà del secolo [Novecento] che il vegetarianismo arriva a poter essere definito un fenomeno di massa nelle società occidentali» (Beardsworth, 2004:547). Si ricorda che nel 1975 il filosofo Peter Singer scrisse il libro Animal Liberation, considerato come uno dei capisaldi teorici del Vegetarianismo e del movimento per i diritti degli animali, che risulta – insieme al più recente libro di Jonathan Safran Foer  Se niente importa (Eating Animals) – essere tra i puntelli alla continuazione e propagazione di questa filosofia nella nostra cultura alimentare e sociale.
Ciò che interessa in questo contesto è se il Vegetarianismo possa essere considerato una forma alimentare evoluta della specie umana. Se assumiamo che questo comportamento comporti un particolare sviluppo neuronale, differente da quello di chi non è vegetariano, allora sicuramente diremo che più evolve la società più una parte maggiore di essa sviluppa questa caratteristica, legata ad una maggiore capacità analitica e percettiva del mondo esterno e riscontrata nelle fasce più evolute ed istruite della società.
Se consideriamo le forme di vegetarianismo volontario (vedi oltre), è molto probabile che esso sia tipico delle società relativamente più evolute dal punto di vista tecnologico perché in queste non c’è più un’impellente ricerca del cibo, magari per una ricchezza di tipo economico, ma invece possono trovare maggiore spazio il dubbio etico alimentare e l’esigenza di una ricerca di equilibrio psicologico. Ma se invece si considerano le zone soggette a cronica carenza proteica animale (il vegetarianismo obbligato, vedi oltre) vi troveremo ugualmente diffusa una forma di vegetarianismo che riguarda percentuali sicuramente maggiori della popolazione.
Non è quindi una questione di percentuale ma è importante capire cosa porta a questo comportamento che differisce tra società e società e che può cambiare nel tempo e secondo le potenzialità economiche.
In questo quadro, riguardo alle società ricche dell’occidente, l’avvento del vegetarianismo volontario potrebbe dunque essere anche considerato come il segno di una variazione nel bisogno di apporto proteico nella dieta per l’insorgere di un diverso stile di vita, più sedentario. In quest’ottica sarebbe auspicabile, soprattutto in termini di salute pubblica. Comunque, è sicuramente una forma di riequilibrio della società: alcuni soggetti con particolare sensibilità, a seguito di campagne mediatiche o personali analisi esperienziali, trovano un equilibrio psicologico alle realtà percepite cambiando il loro comportamento alimentare. Ciò può essere visto anche come conseguenza alla dinamica gaussiana della società e dei suoi devianti; in altre parole, alcuni soggetti si differenziano dagli altri proprio per il fatto di non volersi comportare come la maggioranza della popolazione o per rifiuto delle pratiche stabilite nella società per garantire la sua ricchezza.
Per i paesi in via di sviluppo, invece, la ricerca di alimentazioni sostenibili, anche a livello personale, porta allo sviluppo di alimentazioni che tendono al vegetarianismo come unica forma di sostentamento, fino a diventare un’abitudine etica anche se ad un certo punto il limite di tipo reddituale o produttivo viene a cadere. Per spiegare questo concetto ricordiamo un fenomeno simile legato all’etica delle fasce più anziane delle popolazioni dell’Europa occidentale che hanno sperimentato la carenza alimentare della Seconda Guerra Mondiale: gli anziani che hanno vissuto periodi di carenza alimentare guardano con fastidio allo spreco, più dei loro figli e nipoti, nonostante i problemi di carenza alimentare siano decaduti.
Da non dimenticare, prima di affrontare l’argomento nei suoi aspetti più specifici, che nel comportamento vegetariano si individuano anche alcune componenti della nevrosi alimentare: «[abitudini e ideologie alimentari contemporanee] sono spesso celate da dispositivi culturali che operano per proteggere il consumatore dalla riflessione su aspetti potenzialmente inquietanti o minacciosi dell’atto del nutrirsi» (Beardsworth, 2004:544). Questo può essere letto come se la scelta di abbracciare il vegetarianismo non sia una vera soluzione alla situazione del fatto che il soggetto non riesce ad accettare la realtà percepita, ma è invece un metodo per allontanarla senza affrontarla né comprenderla, con la conseguente creazione di una nevrosi interiore.
Approfondendo gli aspetti che portano ad aderire al vegetarianismo, appare evidente come in una situazione di carenza nutrizionale o di difficile reperimento di nutrimenti è difficile che si instauri un tipo di vegetarianismo volontario di natura etica: «[...] data l’intrinseca incertezza e imprevedibilità del sistema di caccia e raccolta, [nelle società primitive] è piuttosto improbabile che individui ovviamente dipendenti, per la sopravvivenza, dall’approvvigionamento di cibo, rifiutassero deliberatamente una fonte di nutrienti così importante [come la carne]» (Ibidem). Quando la struttura etico-neuronale funziona correttamente, infatti, porta il soggetto a sfruttare tutte le fonti nutrizionali, altrimenti sarebbe destinato a morte certa. Nel Tibet, ad esempio, l’etica alimentare consiglia di ridurre al massimo il consumo di carne, ma non per un motivo di tipo etico-morale; infatti, per le particolari condizioni economiche, gli yak (animali di riferimento della zona, utilizzati sia per il trasporto dei materiali che per la produzione di latte e di pelli) vengono mangiati solo alla loro morte perché quelle popolazioni non possono permettersi di privarsi di un importante fattore produttivo.
Se ne deduce che sono le condizioni a contorno a determinare le scelte etiche alimentari e non è detto che il vegetarianismo volontario e un vegetarianismo di tipo economico (vedi oltre) abbiano la stessa radice etica, seppur derivino entrambi da un movente etico.
Con l’evoluzione della società, ma anche con la possibilità di avere un più stabile e ricco approvvigionamento di fonti nutrizionali, la selezione della qualità e quantità degli alimenti aumenta poiché il cibo diventa non solo nutrimento, ma anche piacere. Così, in alcune fasce della popolazione si crea un rifiuto delle forme più cruente del reperimento delle fonti nutrizionali, in questo caso proteiche di origine animale: «Da questo punto di vista [la possibile esistenza di un processo di raffinamento del gusto e della sensibilità] il consumo di carne, con i suoi rimandi simbolici ai concetti di morte, sangue e smembramento, è considerato sempre più ripugnante, con la conseguenza che l’origine animale di alimenti a base di carne deve essere dissimulata e che la carne stessa viene progressivamente evitata o definitivamente bandita dalla dieta» (Beardsworth, 2004:558). Ma questo avviene perché l’etica della convivenza sociale ha nascosto, eliminato o cercato di coprire la violenza come mezzo di sopravvivenza prima e di posizionamento sociale poi. La conseguenza è lo sviluppo di un cortocircuito intellettivo nei soggetti che sono stati più sensibili e ricettivi a questi dettami (stigmatizzazione della violenza) e non sono stati in grado di modulare l’uso della forza nella loro esistenza, trovando come soluzione l’eliminazione del richiamo più vivo a questi comportamenti, la carne degli animali appunto. Vi è quindi una ricerca di coerenza personale che non è, e non può essere, assoluta; infatti anche un biscotto ha nel suo processo produttivo incorporati violenza, sfruttamento, impatto ecologico, ma se non viene percepito tutto va bene e il prodotto viene consumato.
Da altri soggetti la coerenza etica viene raggiunta più facilmente se viene dimostrato, anche solo a parole, che gli animali che mangiano sono stati trattati in una certa maniera, cresciuti in un certo tipo di allevamento, venduti con un’etichetta di ecosostenibilità o di tipo equo-solidale ecc.: «Anche Willets (1997) accenna a questo processo [la produzione di carne vista come una forma di violenza da evitare] quando nota che per alcuni dei suoi intervistati mangiare carne prodotta e lavorata secondo criteri sostenibili è un modo per “esibire le proprie credenziali ambientaliste, e riflette un atto non di indifferenza o di dominio sugli animali ma di identificazione con essi» (Beardsworth, 2004:559).
Questa accettazione della carne se è stata prodotta secondo determinate regole, si può anche interpretare come un modo per pulirsi la coscienza allontanando da sé la responsabilità dell’atto violento, della morte e dello sfruttamento dell’animale; dall’altro lato, però,  la conoscenza del processo produttivo riduce le paranoie sulla possibile sofferenza degli animali e sulla qualità delle carni mangiate, quasi a riportare il tutto in un alveo di “naturalità” che garantisce sia in termini psicologici che qualitativi. La ricerca di questo tipo di giustificazione etica nasce più che altro perché alcuni tipi di vegetariani hanno una percezione particolare per la quale la carne può essere veicolo di avvelenamento a causa dell’uso di sostanze farmaceutiche, ormoni e antibiotici somministrati lungo il processo di allevamento; la sofferenza dell’animale, in questo caso, passa decisamente in secondo piano se non relativamente alla percezione che un animale maltrattato possa dare carne di sapore sgradevole e magari nociva per l’uomo. È questo, quindi un approccio egoistico e non empatico come possono avere altre forme di vegetarianismo.>>


(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)



sabato 21 aprile 2012

La Guerra della Mortadella

La Regione Emilia-Romagna "consiglia" di non dare da mangiare la Mortadella ai bambini ed ai ragazzi nelle scuole e nei loro dintorni: leggi qua

Perchè succede questo?

Perchè la percezione dell'alimento non è per tutti uguale ed in più c'è una distorsione etica alla base. Si considera il "grasso" come qualcosa di "cattivo" senza considerare che è un componente basilare alla vita.

E' chiaro che la linea guida della Regione non dichiara esplicitamente che la Mortadella non può essere somministrata, ma lo si deduce, creando un corto circuito etico-alimentare e anche sociale, alla faccia della scienza e della cultura.

Sarebbe da capire se coloro che compilano queste indicazioni lo fanno con lo scopo di "salvare" la popolazione o semplicemente perchè applicano svogliatamente indicazioni generiche rivolte prettamente ad una popolazione adulta.

Andrea Meneghetti

giovedì 19 aprile 2012

Le tasse sul Junk Food

Le tasse sul Junk food non hanno senso, se si considera che la definizione di "Junk Food" è mediata da una distortura etica e non è supportata da una base scientifica. Le tasse del Junk food servono solo per fare cassa.

Un passaggio che riguarda questo argomento che è in realtà inserito in un argomento più vasto che contempla una serie di azioni che la società mette in atto con lo scopo dichiarato (ma non sempre effettivo) di voler ridurre l'impatto dell'eccesso di peso nella società.

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Soluzioni all’obesità

Le soluzioni all’obesità proposte dalle istituzioni sono molteplici; di seguito una rassegna dove le casistiche vengono raccolte per gruppi.

1- Le tasse sul junk food e le tasse sul grasso.
Da anni è aperto il dibattito a livello europeo e mondiale sull’opportunità o meno di limitare i danni derivanti dall’alimentazione tramite una tassazione sui prodotti considerati “colpevoli” o direttamente sul famigerato “grasso” che diventa l’emblema di componente alimentare messa sotto accusa: «Un dibattito particolare va sotto l’intestazione di “tasse del grasso”; la discussione era sul fatto che, dato che il produzionismo ha reso così economico il grasso, i suoi costi per la salute dovrebbero essere aggiunti attraverso la tassazione. Al dibattito è stata data particolare attenzione nella UE sull’obesità e sul consumo non solo del grasso conveniente, ma anche delle calorie a basso prezzo. Ma in concreto la ricerca di come e dove imporre una tassa sul grasso continua» (Lang et al., 2009:172).
In Europa la Commissione Europea sta valutando se seguire il caso apripista della Romania dove si è introdotta una tassa sui fast food, che vengono definiti junk food (Offeddu, Corriere della sera, 23 febbraio 2010). Per quanto riguarda il caso romeno, i ricavati di queste tasse andrebbero, come dichiarato, a finanziare programmi di educazione alimentare e sanitaria. Se prendiamo a riferimento questo esempio, si può asserire che questi programmi messi in atto per “salvare” le classi meno abbienti, in realtà costringono queste ultime a finanziare progetti che avranno effetti sulle fasce di popolazione più ricche e ricettive dal punto di vista culturale. Infatti questa tassa avrà come conseguenza un aumento del costo del cibo per coloro che consumano maggiormente questo tipo di alimenti, cioè le classi povere e meno acculturate.
Ci sono però casi, in tutti gli Stati Europei ma anche nel mondo, che prendono in considerazione varie componenti alimentari da tassare, nei quali i ricavi delle imposte non necessariamente vanno a coprire attività di tipo sociale ma servono principalmente per fare cassa: «[In Danimarca] nonostante meno del 10% dell’intera popolazione risulti essere clinicamente obesa, una percentuale ben al di sotto della media europea, dal primo ottobre è entrata in vigore una tassa sui grassi saturi contenuti negli alimenti. Lo scopo? Salvaguardare la salute pubblica del popolo danese, ma soprattutto rimpinguare le casse dello Stato. Con la fat tax arriveranno infatti ogni anno non meno di 200 milioni di euro. […] in Danimarca viene applicata quella che è considerata in assoluto la prima «fat tax». E tutto (o quasi) in nome della salute. Per i danesi che vanno a fare la spesa significa un aumento dei prezzi dei prodotti ad alto contenuto di grassi saturi, i veri nemici delle arterie, poiché accusati di aumentare il colesterolo e favorire di conseguenza l’insorgenza delle malattie cardiovascolari. […] Il nuovo provvedimento si applica a tutti i cibi venduti, quale che sia la natura e la provenienza, mentre l’alimento viene tassato in misura degli acidi grassi saturi che contiene. Gli alimenti che subiscono il tributo addizionale più sostanzioso, ha scritto il Copenhagen Post, sono il burro, gli oli e i prodotti lattiero-caseari in generale. L’imposta per i cibi con oltre il 2,3% di grassi saturi è in misura pari a 16 corone danesi (2,15 euro) al chilogrammo di nutriente. In altre parole: da oggi i danesi dovranno sborsare il 30% in più per una confezione di burro da 250 g. e l’8% in più per un sacchetto di patatine, mentre un litro d’olio d’oliva costerà loro il 7,1% più del solito. Altri numeri: l’imposta dovrebbe ridurre il consumo di grassi saturi di quasi il 10% e il consumo di burro scenderebbe secondo le previsioni del 15%. […] La scelta danese non è isolata, anzi è un esempio che viene seguito da diversi governi europei: la Francia ha deciso di aumentare dal 2012 la tassazione sulle bevande zuccherate, ritenute tra i responsabili dell’aumento dell’obesità in terra transalpina. La cosiddetta tassa sulla Coca Cola dovrebbe generare 120 milioni di euro in più da destinare alla previdenza sociale. Caso analogo in Ungheria dove a inizio mese è stata introdotta una tassa anti-obesità, un tributo addizionale sui cibi confezionati ad alto contenuto di sale, di zuccheri o carboidrati, come patatine e cioccolata. Se Finlandia e Norvegia hanno già introdotto questa tassa, anche in Svezia gli esperti spingono per una fat tax. [...]» (Burchia, Corriere della Sera, 1 ottobre 2011).
La tassazione danese in oggetto potrebbe anche riuscire a ridurre il consumo di sostanze grasse, ma con il grosso rischio di creare nel contempo disfunzioni di tipo nutrizionale. Tassare l’olio di oliva, la cui composizione in acidi grassi è principalmente di tipo insaturo, è una sciocchezza dettata probabilmente dall’esigenza burocratica di definire una regola per la legge. E, comunque, tassare i grassi saturi perché tali non ha un senso nutrizionale. Nel contempo con questa legge si scoraggerebbe il consumo di derivati del latte, con la probabile conseguenza di ridurre di poco il colesterolo ma molto di più l’osteoporosi.
Un altro punto da sottolineare è che in condizioni di un’alimentazione che ecceda nel contenuto calorico, anche gli zuccheri si trasformano in grassi e quindi sarebbero da tassare anche questi ultimi se il quadro della legge fosse completo. Infatti in Francia c’è la tassa sulle bevande zuccherate, di cui abbiamo già parlato per i loro effetti; ma se la Francia avesse fatto una legge in funzione del consumatore avrebbe dovuto colpire anche le bevande con l’aggiunta di edulcoranti, coloranti, caffeina e taurina che non sono più salutari delle bevande zuccherate.
Quindi, sottolineando ancora una volta che è difficile creare una netta linea di demarcazione tra cibi sani e junk food; il cibo – se è considerato nocivo – dovrebbe essere vietato e non tassato, perché un cibo nocivo, a quel punto, perde lo status stesso di cibo. Una tassazione, inoltre, colpisce tutti indistintamente, anche quelle categorie di persone normopeso (che troppe volte sfuggono alle statistiche) che basano la loro alimentazione su prodotti di base perché sono economicamente disagiate.
Se però uno Stato sceglie di favorire un certo tipo di consumo rispetto ad un altro, la soluzione di introdurre delle tasse diventa plausibile: nell’Unione Europea ci sono già aliquote I.V.A. differenziate a seconda dell’alimento; ad oggi, in Italia l’I.V.A. sul pane è al 4% e sul vino al 21%.
Ma il vero punto è un altro: se si vogliono introdurre queste tasse, non sarebbe più corretto che con i soldi ricavati si favorisse il consumo dei cibi considerati “sani” da parte della popolazione più povera? Le modalità sarebbero molteplici, ma escludendo le campagne di sensibilizzazione che hanno un effetto limitato, una soluzione potrebbe essere utilizzare i ricavi per l’abbattimento del costo dei cibi sani solo per le fasce deboli economicamente o per chi necessita di un cambio di alimentazione a seguito di prescrizione medica; perché non una Card in convenzione con supermercati e negozi, caricata di un importo spendibile solo per l’acquisto di determinati beni come frutta, verdura, pesce, prodotti caseari, pane fresco e pasta, olio d’oliva? Potrebbe incentivare le fasce deboli, che non è detto abbiano la capacità economica per cambiare comportamento alimentare. Infatti, se venisse aumentato di prezzo il prodotto che consumano di solito, seppur junk food, ciò le costringerebbero a consumare un prodotto di qualità ancora più scarsa, in assenza del tempo materiale per informarsi, sbattute come sono tra turni di lavoro massacranti e trasferimenti per il ritorno alle proprie abitazioni. Tutto ciò se fosse reale l’intenzione degli Stati di ridurre l’incidenza dell'obesità e delle malattie ad essa legate; cosa che non è detto sia così sicura.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

martedì 17 aprile 2012

Pubblicità in Campo Agroalimentare

La pubblicità serve per stordire e confondere il consumatore e le varie forme di auto regolamentazione e di controllo della stessa (anche di tipo Statale) non hanno la funzione di garantire il consumatore ma piuttosto di garantire che la produzione ed il consumo continuino senza intoppi.

Ecco una parte di testo che può far emergere questa situazione in maniera più chiara. Naturalmente nel libro il concetto viene espresso in maniera più ampia ed efficace con casi studio, ma già da questo si può dedurre molto. Buona lettura.

Andrea Meneghetti

<< Dopo questa breve premessa, possiamo occuparci del nostro tema specifico: il settore alimentare. Il problema etico della pubblicità, in questo settore, crea gli stessi dubbi che emergono negli altri settori, ma ha almeno altri due aspetti più caratterizzanti: le informazioni nascoste al consumatore ed i messaggi di salubrità, salutistici, nutrizionali.

- Le informazioni nascoste (o non comunicate) al consumatore.
Gli alimenti sono per l’essere umano indispensabili alla vita e quindi egli non può esimersi dal consumarli. Ma gli stessi alimenti, se consumati in quantità e qualità inadeguate (anche in relazione alle condizioni di salute del soggetto), possono portare a condizioni patologiche. Ciò determina una valenza particolare di questo bene che dovrebbe (anche se in pratica non lo è) essere considerato con particolare attenzione dalle forme di pubblicità.
Solitamente le legislazioni dei vari Stati impongono che una buona informazione debba essere riportata sulle confezioni e sugli imballaggi dei prodotti, ma nonostante ciò ci sono delle informazioni “sensibili” dell’alimento che non vengono riportate, perché non obbligatorie; certe volte vengono omesse per ignoranza stessa del produttore, ma nella maggior parte dei casi non vengono volontariamente valutate e dichiarate.
Per dati “sensibili” si intende principalmente il contenuto calorico del prodotto alimentare, le quantità consigliate di consumo, le categorie di consumatori che dovrebbero evitare il consumo di quell’alimento, altre componenti nutrizionali non caratterizzanti il prodotto ma presenti.
Infatti, oltre ai bambini, sui quali si scatenano di solito le maggiori discussioni etiche, esistono anche altre categorie di consumatori che avrebbero bisogno di attenzioni come diabetici, celiaci e anziani solo per citarne alcune.
Per la legge (che alle volte recepisce le ragioni etiche per una questione di pax sociale e non in funzione regolativa), molte di queste necessarie informazioni devono essere riportate sulle confezioni, ma altre informazioni ingredientistiche e nutrizionali non sono richieste, nonostante ci possa essere una pericolosità nel loro consumo, soprattutto se ripetuto.
Ad esempio, nelle pubblicità delle merendine al cioccolato non viene certo ricordato che questo ingrediente apporta sostanze nervine (eccitanti) al prodotto, che ai bambini non fanno bene. Non viene richiamato il fatto che un’alimentazione troppo ricca in zuccheri semplici non è adeguata. Ci sono addirittura merendine con estratto di caffè, e nella pubblicità televisiva del prodotto si vede il bambino mangiarne con voluttà.
Per non parlare di tutta una serie di prodotti, sempre correlati all’alimentazione infantile, che oltre ai due succitati componenti (sostanze nervine e zuccheri semplici) contengono delle sostanze conservanti (che sono tossiche se consumate in grande quantità), sostanze grasse di varia origine (ad esempio grassi trans) e tante altre sostanze che andrebbero conosciute approfonditamente per un consumo consapevole.
Il punto etico sorge perché il bambino è un delicato organismo in crescita e quindi andrebbe salvaguardato nella sua alimentazione anche partendo dall’aspetto pubblicitario che influenza non poco la sua giovane mente. Infatti i bambini, a seguito della visione del messaggio pubblicitario, richiederanno insistentemente il prodotto ai genitori, anche se questi non lo ritengono adeguato; la pubblicità incide inoltre sullo stile alimentare: uno  studio indica come sempre meno le abitudini alimentari del bambino siano influenzate dai genitori ed invece seguano gli input esterni (Antonella Sparvoli, Corriere della Sera, 17 aprile 2011).
Per quanto riguarda altre categorie di consumatori, hanno preso piede alcuni nuovi criteri di etichettatura, richiesti da più parti, come ad esempio le etichettature “gluten free” per i celiaci e le dichiarazioni che negli stabilimenti si usano ingredienti che possono scatenare shock allergici (come i semi di frutta in guscio, crostacei, componenti della soia ecc.), ma per le patologie più generiche non si è ancora riusciti a trovare una risposta soddisfacente, anche perché la maggior parte dei prodotti si ritroverebbe poco adatta alla maggior parte della popolazione; a tal proposito basta pensare alle varie forme di diabete e al sovrappeso.

- Messaggi di salubrità, salutistici, nutrizionali.
Oltre alle informazioni che sono omesse, più o meno volontariamente, ma che se fossero richiamate sarebbero solo a favore del consumatore, ci sono, nelle pubblicità, degli espliciti richiami di tipo salutistico-nutrizionale che possono essere considerati non etici per uno o più dei seguenti motivi:
non corrispondono al vero: danno un messaggio del tutto fantasioso o illusorio che porta il consumatore a fare confusione (ad esempio dichiarare che un alimento è “light” gli fa credere che possa far dimagrire o comunque non ingrassare);
declamano caratteristiche che appartengono al prodotto per la sua stessa definizione: è considerato scorretto richiamare queste caratteristiche a scopo pubblicitario (ad esempio i “claim” che ascrivono a prodotti derivanti dai cereali «un carico di energia» che, essendo per lo più costituiti da carboidrati, per definizione apportano energia; oppure il “claim” «ricco in vitamina A» se sono prodotti contenenti carote);
non sono supportate da reali evidenze scientifiche (ad esempio prodotti caseari con particolari funzioni anti-colesterolo, dietetiche o digestive);
utilizzano termini scientifici o medici che disorientano deliberatamente il consumatore;
utilizzano termini come “salute”, “naturale” ecc. per far nascere nel consumatore particolari suggestioni che in realtà sono generiche e non sono necessariamente legate al prodotto (ad esempio il “claim” «acqua della salute»).
In molti paesi, in questo campo vige una limitazione nell’utilizzo di termini che possono confondere il consumatore; il problema è trovare una regolamentazione efficace ed un ente autonomo che sia in grado di far rispettare il regolamento.

............

In campo alimentare, per promuovere un prodotto si gioca sul riflesso che il consumatore ha nei confronti dei consumi nella socialità (famiglia, amici), del piacere edonistico, dello stile di vita e della ricerca della salute.
A proposito di quest’ultimo punto: «L’idea del cibo come veicolo di salute è sostenuta da un’enorme produzione editoriale con taglio divulgativo. Molte campagne pubblicitarie hanno sfruttato la nuova tendenza valorizzando attributi presenti da tempo nei prodotti.[...] Talvolta un ingrediente è enfatizzato fino ad assumere un valore centrale, sfruttando nomi di piante e sostanze vegetali che evocano di per sé “effetti miracolosi” (aloe, gingko biloba, iperico). […] La veridicità delle promesse degli alimenti salutistici è incerta. Per innalzare lo standard della corretta informazione e delle veridicità delle promesse comunicate, un regolamento europeo vieta di attribuire ai prodotti alimentari caratteristiche nutrizionali e salutistiche non scientificamente provate; inoltre le qualità attribuite agli alimenti debbono essere preventivamente approvate dall’EFSA, l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, e dall’apposita Commissione europea.[...] Il mercato dell’health & wellness è florido, anche se non sono chiare le premesse scientifiche su cui si regge l’offerta. Le caratteristiche dei prodotti non sono comunicate con chiarezza; intanto le imprese cercano relazioni con istituti di ricerca e università per acquisire autorevolezza nel proporre prodotti e risultati» (Franchi, 2009:90-91).

.....

La pubblicità può essere considerata anche una raffinata forma di violenza quando viene usata per creare disagio e “costringe” il soggetto ad agire in un determinato modo per alleviare le proprie sofferenze psicologiche (specie se indotte dalla pubblicità stessa). Il dubbio etico sorge proprio se questa strisciante violenza è indirizzata alle menti giovani, non pronte per affrontare tutto e per discernere. I governi farebbero quindi anche bene, in via teorica, a stabilire dei limiti per salvaguardare le fasce più deboli della popolazione, per inciso bambini ed anziani, ma non è un indirizzo facile da individuare in via pratica.
Per trovare una conclusione a questa disamina, si potrebbe dire che c’è una sorta di autoregolamentazione implicita nel settore pubblicitario, tra chi tira da una parte (venditori e pubblicitari) e chi tira dall’altra cioè associazioni dei consumatori ed istituzioni religiose (queste ultime interessate perché competono con la pubblicità per lo spazio cerebrale dei consumatori). Infine ci sono le autorità pubbliche e dello Stato che dovrebbero fare da mediatori tra le due istanze e che quindi non fanno necessariamente il bene del cittadino, ma devono trovare un accordo tra le varie esigenze, sia di produzione e di ricchezza che di salute e pace sociale.>>



(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

domenica 15 aprile 2012

Cannibalismo, omicidi e focacce di carne umana...

In questo video tratto dal Corriere della Sera viene riportata la storia di persone che per una etica personale (distorta?) sono andati contro la morale (oltre che contro la legge) uccidendo delle persone (tra cui anche una bambina) e mangiandone i corpi:

Collegamento al video

Dal servizio si capisce che una parte dei corpi delle persone uccise, oltre ad essere mangiate dagli assassini stessi (soprassediamo sui motivi e i legami con le sette religiose che comunque hanno una fondamentale importanza nella formazione dell'etica) sono state mangiate anche da altre persone, inconsapevolmente, inserite in focacce vendute in un banchetto.

E' interessante il fatto che nessuno se ne sia reso conto, come mai?

Perchè anche l'essere umano può essere una fonte nutrizionale; non viene consumato perchè percettivamente viene considerato non edibile e se pensiamo di aver mangiato delle componenti alimentari di origine umana, la maggior parte di noi prova disgusto.

Secondo me, più o meno volontariamente, ognuno di noi, nella sua vita, ha consumato delle parti umane ad esempio per incidenti nelle catene produttive, per scherzi degli operatori, per involontarie perdite di sangue eccetera.

Andrea Meneghetti

La Vivisezione

<< Caso studio: la vivisezione

Le ragioni che hanno portato alla nascita di movimenti antivivisezione sono molto simili alle motivazioni che spingono la gente a fare una scelta vegetariana: non si accettano le sofferenze degli animali destinati alla macellazione o, in questo caso, le sofferenze a cui sono sottoposti per gli scopi di ricerca scientifica o cosmetica.
Gruppi antivivisezione premono per l’abolizione dell’impiego degli animali per gli esperimenti di ricerca. A seguito di queste pressioni la Commissione Europea (Direzione Ambientale) ha avviato delle attività per modificare una legislazione ritenuta non più adeguata. Cos’ha portato a questa inadeguatezza? Chiaramente un cambiamento dell’etica.
Infatti, è intuibile che gli esperimenti sugli animali non siano più cruenti o crudeli di quelli che avvenivano 20 anni fa. Ma anche se lo fossero non cambierebbe di molto il concetto, visto che la maggior parte degli animali da laboratorio sono destinati a morire o a soffrire di malattie indotte. Ciò che cambia è che molte più persone, anche a seguito di campagne mediatiche, non sopportano più l’idea di sapere che questi animali soffrono, anche se si rendono conto che quegli esperimenti potrebbero salvare vite umane o comunque renderle meno difficili.
Di estremo interesse, poi, il fatto che buona parte delle azioni di protesta siano rivolte a favore dei primati non umani (scimmie) e degli animali di compagnia (cani e gatti in primis).
Caso delle scimmie. Lo sviluppo neuronale dell’uomo e della scimmia sono ampiamente comparabili, tranne che per lo sviluppo del SNC (Sistema Nervoso Centrale, il cervello). Questa rassomiglianza e l’aumento delle conoscenze su questa specie hanno aumentato l’attenzione e l’empatia per le sofferenze a cui vengono sottoposte queste cavie. Inoltre, le modalità di manifestazione del dolore sono del tutto comparabili a quelle dell’uomo (espressioni facciali, urla, pianti, lacrime ecc.).
Caso degli animali da compagnia. La simbiosi e l’affetto che parte della società prova per cani e gatti ha aumentato la rilevanza etica, così da creare questi movimenti di opinione.

Possiamo elencare ed analizzare alcune delle proposte per la Direttiva Europea sulla vivisezione:
- Non si potranno utilizzare nei laboratori per gli esperimenti gli animali raccolti per strada o abbandonati. Si potranno usare solo gli animali allevati appositamente escludendo primati e animali da compagnia. Analisi: cosa cambierà rispetto a prima, visto che ci saranno egualmente animali che soffriranno? Cambia a livello psicologico: allevia il senso di colpa per il dolore che gli animali devono subire. C’è poi da ricordare che i randagi risultano essere un peso per la società in termini di costi per il loro mantenimento: è più giusto nutrire loro o i senzatetto delle stazioni ferroviarie?
- Si dovrà minimizzare l’uso degli animali da laboratorio. Analisi: l’aumento delle conoscenze, oltre a cambiare l’etica, cambia anche la tecnica. Si suppone, a livello di credenza popolare, che ci siano delle tecniche di laboratorio (genetiche, informatiche, chirurgiche ecc.) che possano sostituire l’uso massivo di cavie per esperimenti.
- Si richiede di regolare l’uso di animali con un alto livello di sensibilità neurofisiologica, come nel caso dei primati non umani. Analisi: si è scoperto di più sulle capacità di sofferenza di questi esseri viventi e c’è l’esigenza psicologica di limitarne l’impiego per la  ricerca. Quando non si era a conoscenza di questa situazione o, meglio, questo senso etico era poco diffuso, non emergeva interesse a regolamentare il settore. Era importante solo lo scopo della ricerca.

Tutto spiega che è possibile che cambi la percezione dell’animale in sé. Ma se da un lato si hanno effetti comportamentali che implicano maggiore attenzione, dall’altro si verificano anche casi di cortocircuito etico. Non dobbiamo mai dimenticare che alcuni esperimenti mirano a migliorare la vita umana (cosmesi), ma altri anche a salvarla (esperimenti su tumori, malattie genetiche ecc.), e una legislazione troppo severa può limitare le possibilità di ricerca riducendo i vantaggi per l’uomo ed il numero di vite salvate, a vantaggio della salvaguardia della vita di animali: in questo passaggio si manifesta il cortocircuito etico, se la vita umana passa in secondo piano rispetto a quella dell’animale.
Consideriamo la seguente riflessione di Mepham (2008:31): «In una interpretazione della Teoria Utilitarista, i vantaggi per le persone obese obiettivo della ricerca in questione dovrebbe ampiamente superare il dolore di pochi topi. I topi, dopo tutto, non hanno un’intelligenza comparabile a quella delle persone; quegli specifici topi, che potrebbero finire facilmente in bocca a un gatto, esistono e sono nutriti solamente per uso sperimentale e sono in ogni caso protetti dalle severe norme del benessere animale». Questa, che dall’autore viene definita come una “forma standard” di difesa dell’uso di animali nella ricerca medica, è in realtà, nient’altro che la giustificazione etica per trovare un equilibrio psicologico nell’allontanamento del senso di colpa.
Il tutto, comunque, non si giustificherebbe se non ci fosse alla base una differente percezione dell’essere umano e dell’animale da parte dell’opinione pubblica rispetto ai ricercatori.
L’altro risvolto per cui si è ricordata la realtà delle cavie da esperimento, è l’analogia del loro disagio e sofferenza con quelli subiti dagli animali da allevamento negli abituali metodi di macellazione che però nessuno vede e di cui pochi parlano. >>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

Spreco alimentare e perdita fisiologica 4/4

Con questo post finiamo la carellata sulla trattazione dell'argomento dello spreco alimentare.

<<  Caso studio: modello Last Minute Market

Questo modello lo consideriamo una delle forme di “scarico” psicologico nel caso etico di spreco alimentare ed ha una precisa origine: «[…] è stato studiato all’Università di Bologna e ha come referente capofila il Professor Andrea Segré della Facoltà di Agraria. Lastminutemarket.org nasce nel 2003 ed è una società partecipata dall’ateneo di Bologna e da nove ex studenti. [Il sistema] elaborato dall’ateneo di Bologna si basa sul riutilizzo delle eccedenze alimentari a “chilometro zero”, cioè si cerca di utilizzare questi alimenti in una struttura poco distante da dove è stata donata. Questo modello, che ha una quarantina di applicazioni in tutta Italia, consente anche a chi ha prodotto l’eccedenza di migliorare il risultato economico in quanto riduce i costi per lo smaltimento dei rifiuti» (Craighero, Corriere della sera, 08 aprile 2008).
«In Italia, secondo il Professor Segré, si potrebbero riuscire a salvare, in un anno, 244,252 tonnellate di cibo per un valore di quasi un miliardo di euro, fornire 3 pasti al giorno a 636.600 persone con risparmio di 291.393 delle tonnellate di CO2 prodotte a causa dello smaltimento del cibo che diventerebbe altrimenti rifiuto» (Rita Querzè, Corriere della Sera, 04 gennaio 2010).
Viene messo in evidenza che il modello a chilometri zero presenta il vantaggio di evitare altre manipolazioni per il recupero del cibo, così da abbattere il costo più alto che è quello della manodopera. Inoltre, visto che il prodotto non viaggerà per lunghe distanze, avremo anche un basso impatto ambientale.
Vi è quindi la ricerca di soluzioni che riducano lo spreco, che diano oltre all’equilibrio economico, anche una giustificazione di tipo morale per un ricercato “equilibrio” di tipo psicologico.
«“Allora non capivo bene, ero ancora un bambino. Eppure tutto quell’arancione e quel rosso... mi chiedevo: come è possibile che si distruggano degli alimenti? Perché buttare via, anzi distruggere, dei prodotti che si potrebbero mangiare? […] Fin dai primi anni ‘70 quando ero un bambino – racconta il Prof. Andrea Segré – mi sono impressionato davanti alle montagne di agrumi interrate da grandi bulldozer. Poi quando, da studente, nel 1989 iniziai a studiare le aziende agricole cooperative mentre ero in Germania dell’Est, mi domandai come potevo intervenire nell’agricoltura sociale con un sistema virtuoso che recuperi le eccedenze alimentari trasformandole non solo in risorse, ma anche in “beni relazionali”. È da questi interrogativi e studi che è nato il modello di ricerca Last Minute Market (LMM)” [...]» (Craighero, Corriere della Sera, 08 aprile 2008).
Da questa intervista rilasciata dal Prof. Segrè, ideatore del Last Minute Market, deduciamo il processo etico che ha portato allo sviluppo dei suoi progetti. Anche in questo caso troviamo un fattore scatenante che impressiona l’osservatore influenzando la sua percezione della situazione tramite uno stimolo dei recettori sensoriali: il colore.
Il meccanismo può essere messo in relazione, con un  parallelo, con il colore delle carni (rosse), elemento che influenza fortemente i vegetariani nella loro percezione della sofferenza dell’animale; il conseguente disagio psicologico provoca quindi la ricerca di una soluzione.
Nel caso di Segré la risposta al problema è stata formulata nella creazione del progetto LMM che, oltre a dare un “sollievo” psicologico a tutta la serie dei vari operatori coinvolti, ha una fortissima valenza dal punto di vista della pax sociale. È forse proprio quest’ultima la ragione per la quale questo sistema di recupero delle eccedenze funziona. Infatti, il disagio etico del singolo non è necessariamente correlato ad una esigenza della società o ad una sostenibilità economica, ma la soluzione può, come in questo caso, implicare un comportamento legato ad un problema che la società esprime. In altre parole, le eccedenze sono una realtà produttiva che può dare dei problemi economici e ambientali; la ridistribuzione, fatta in questa forma, ha più che altro una valenza sociale, economicamente sostenibile per le modalità utilizzate e importante elemento di equilibrio psicologico per il soddisfacimento dell’etica alimentare.
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Pensare di riuscire a “trasferire” le eccedenze e le sovrapproduzioni nei paesi affamati (ad esempio le arance ed i pomodori dall’Italia all’Africa) è una sciocchezza, oltre che un’utopia; la raccolta, la trasformazione e soprattutto il trasporto dei prodotti alimentari hanno dei costi altissimi e quindi questa soluzione è improponibile per due ragioni:
- c’è un impiego di energie necessario al trasporto ed all’eventuale trasformazione (per impedire il deperimento del prodotto) che deve essere pagato da qualcuno, e se quello sforzo non è coperto economicamente, non si sposta nulla;
- questa è un’ulteriore attività umana che produce inquinamento per trasportare del materiale che non da nemmeno reddito.
Del resto chi produce il prodotto alimentare, lo consuma e lo scambia, e gli altri non possono far altro che stare a guardare.
È impossibile recuperare tutto, quindi, ma dal punto di vista economico dobbiamo considerare che, per recuperare del cibo, certe volte il consumo è superiore al beneficio.
E poi, chi pagherebbe questo sforzo? Teoricamente dovrebbe farlo chi consuma, ma molte volte il destinatario del bene recuperato non è in grado di pagare o di agire per quella funzione: poveri, disadattati, anziani non autosufficienti. Fuori dall’utopia del credere di poter recuperare tutto, il vero problema è il costo della manodopera e del trasporto.
L’idea di poter recuperare ogni cosa soprattutto in campo alimentare è illusoria. L’alimento, più di ogni altro prodotto commerciale, è soggetto a deperimento e questo può portare anche a problemi nella salute dell’uomo.
Nelle campagne di sensibilizzazione contro lo spreco alimentare si instaurano anche dei cortocircuiti culturali, infatti alle volte si incitano i cittadini a consumare anche prodotti scaduti o cercare di recuperare alimenti non completamente edibili o che hanno iniziato un processo di decomposizione “per non sprecare”. Questo è contro le regole basilari della sicurezza alimentare. Anche se la maggior parte delle volte non hanno conseguenze, questi comportamenti possono creare dei rischi per la salute, principalmente di tipo microbiologico (intossicazioni, infezioni, parassitosi ecc.) ma anche di tipo chimico (ad esempio consumando matrici biologiche ossidate e irrancidite che introducono anche radicali liberi) per le alterazioni subite dai cibi. >>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)