domenica 22 aprile 2012

Analisi del Vegetarianismo 1/4

Iniziamo con oggi la trattazione di un argomento che è forse uno dei cardini su cui si struttura l'etica agroalimentare in quanto anche filosoficamente ha rappresentato uno dei primi punti di riflessione dell'uomo in quanto essere vivente che si rapporta con la vita che lo circonda: Il Vegetarianismo.

L'argomento è trattato con un approccio non usuale, spero sufficientemente scientifico, a tratti un pò complesso. Spero che possiate comunque apprezzare lo sforzo di cercare di rendere fruibili i contenuti.

Buona lettura.

Andrea Meneghetti

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Analisi del Vegetarianismo

Il Vegetarianismo, almeno considerando quello volontario e non obbligato da una condizione economica o geografica, è una risposta comportamentale ad un dubbio etico che si esprime con l’eliminazione della carne dall’alimentazione.
Il vegetarianismo non è un fenomeno recente: «Le prime attestazioni scritte dell’esistenza di forme di vegetarianismo in Europa provengono dalla Grecia classica e riguardano l’illustre matematico Pitagora e i suoi allievi, fedeli alla dottrina della trasmigrazione delle anime che proibiva loro di uccidere altri esseri viventi e nutrirsene» (Beardsworth, 2004:545). Appare chiaro che in questo caso il movente etico che giustificava l’approccio vegetariano derivava da un’alterata (o particolare) percezione della vita con conseguente dubbio etico e scelta comportamentale utile a ricreare equilibrio psicologico nei seguaci della dottrina.
Vari movimenti vegetariani o richiami a forme di vegetarianismo si sono alternati e susseguiti nei secoli, ma: «[...] è solo con la seconda metà del secolo [Novecento] che il vegetarianismo arriva a poter essere definito un fenomeno di massa nelle società occidentali» (Beardsworth, 2004:547). Si ricorda che nel 1975 il filosofo Peter Singer scrisse il libro Animal Liberation, considerato come uno dei capisaldi teorici del Vegetarianismo e del movimento per i diritti degli animali, che risulta – insieme al più recente libro di Jonathan Safran Foer  Se niente importa (Eating Animals) – essere tra i puntelli alla continuazione e propagazione di questa filosofia nella nostra cultura alimentare e sociale.
Ciò che interessa in questo contesto è se il Vegetarianismo possa essere considerato una forma alimentare evoluta della specie umana. Se assumiamo che questo comportamento comporti un particolare sviluppo neuronale, differente da quello di chi non è vegetariano, allora sicuramente diremo che più evolve la società più una parte maggiore di essa sviluppa questa caratteristica, legata ad una maggiore capacità analitica e percettiva del mondo esterno e riscontrata nelle fasce più evolute ed istruite della società.
Se consideriamo le forme di vegetarianismo volontario (vedi oltre), è molto probabile che esso sia tipico delle società relativamente più evolute dal punto di vista tecnologico perché in queste non c’è più un’impellente ricerca del cibo, magari per una ricchezza di tipo economico, ma invece possono trovare maggiore spazio il dubbio etico alimentare e l’esigenza di una ricerca di equilibrio psicologico. Ma se invece si considerano le zone soggette a cronica carenza proteica animale (il vegetarianismo obbligato, vedi oltre) vi troveremo ugualmente diffusa una forma di vegetarianismo che riguarda percentuali sicuramente maggiori della popolazione.
Non è quindi una questione di percentuale ma è importante capire cosa porta a questo comportamento che differisce tra società e società e che può cambiare nel tempo e secondo le potenzialità economiche.
In questo quadro, riguardo alle società ricche dell’occidente, l’avvento del vegetarianismo volontario potrebbe dunque essere anche considerato come il segno di una variazione nel bisogno di apporto proteico nella dieta per l’insorgere di un diverso stile di vita, più sedentario. In quest’ottica sarebbe auspicabile, soprattutto in termini di salute pubblica. Comunque, è sicuramente una forma di riequilibrio della società: alcuni soggetti con particolare sensibilità, a seguito di campagne mediatiche o personali analisi esperienziali, trovano un equilibrio psicologico alle realtà percepite cambiando il loro comportamento alimentare. Ciò può essere visto anche come conseguenza alla dinamica gaussiana della società e dei suoi devianti; in altre parole, alcuni soggetti si differenziano dagli altri proprio per il fatto di non volersi comportare come la maggioranza della popolazione o per rifiuto delle pratiche stabilite nella società per garantire la sua ricchezza.
Per i paesi in via di sviluppo, invece, la ricerca di alimentazioni sostenibili, anche a livello personale, porta allo sviluppo di alimentazioni che tendono al vegetarianismo come unica forma di sostentamento, fino a diventare un’abitudine etica anche se ad un certo punto il limite di tipo reddituale o produttivo viene a cadere. Per spiegare questo concetto ricordiamo un fenomeno simile legato all’etica delle fasce più anziane delle popolazioni dell’Europa occidentale che hanno sperimentato la carenza alimentare della Seconda Guerra Mondiale: gli anziani che hanno vissuto periodi di carenza alimentare guardano con fastidio allo spreco, più dei loro figli e nipoti, nonostante i problemi di carenza alimentare siano decaduti.
Da non dimenticare, prima di affrontare l’argomento nei suoi aspetti più specifici, che nel comportamento vegetariano si individuano anche alcune componenti della nevrosi alimentare: «[abitudini e ideologie alimentari contemporanee] sono spesso celate da dispositivi culturali che operano per proteggere il consumatore dalla riflessione su aspetti potenzialmente inquietanti o minacciosi dell’atto del nutrirsi» (Beardsworth, 2004:544). Questo può essere letto come se la scelta di abbracciare il vegetarianismo non sia una vera soluzione alla situazione del fatto che il soggetto non riesce ad accettare la realtà percepita, ma è invece un metodo per allontanarla senza affrontarla né comprenderla, con la conseguente creazione di una nevrosi interiore.
Approfondendo gli aspetti che portano ad aderire al vegetarianismo, appare evidente come in una situazione di carenza nutrizionale o di difficile reperimento di nutrimenti è difficile che si instauri un tipo di vegetarianismo volontario di natura etica: «[...] data l’intrinseca incertezza e imprevedibilità del sistema di caccia e raccolta, [nelle società primitive] è piuttosto improbabile che individui ovviamente dipendenti, per la sopravvivenza, dall’approvvigionamento di cibo, rifiutassero deliberatamente una fonte di nutrienti così importante [come la carne]» (Ibidem). Quando la struttura etico-neuronale funziona correttamente, infatti, porta il soggetto a sfruttare tutte le fonti nutrizionali, altrimenti sarebbe destinato a morte certa. Nel Tibet, ad esempio, l’etica alimentare consiglia di ridurre al massimo il consumo di carne, ma non per un motivo di tipo etico-morale; infatti, per le particolari condizioni economiche, gli yak (animali di riferimento della zona, utilizzati sia per il trasporto dei materiali che per la produzione di latte e di pelli) vengono mangiati solo alla loro morte perché quelle popolazioni non possono permettersi di privarsi di un importante fattore produttivo.
Se ne deduce che sono le condizioni a contorno a determinare le scelte etiche alimentari e non è detto che il vegetarianismo volontario e un vegetarianismo di tipo economico (vedi oltre) abbiano la stessa radice etica, seppur derivino entrambi da un movente etico.
Con l’evoluzione della società, ma anche con la possibilità di avere un più stabile e ricco approvvigionamento di fonti nutrizionali, la selezione della qualità e quantità degli alimenti aumenta poiché il cibo diventa non solo nutrimento, ma anche piacere. Così, in alcune fasce della popolazione si crea un rifiuto delle forme più cruente del reperimento delle fonti nutrizionali, in questo caso proteiche di origine animale: «Da questo punto di vista [la possibile esistenza di un processo di raffinamento del gusto e della sensibilità] il consumo di carne, con i suoi rimandi simbolici ai concetti di morte, sangue e smembramento, è considerato sempre più ripugnante, con la conseguenza che l’origine animale di alimenti a base di carne deve essere dissimulata e che la carne stessa viene progressivamente evitata o definitivamente bandita dalla dieta» (Beardsworth, 2004:558). Ma questo avviene perché l’etica della convivenza sociale ha nascosto, eliminato o cercato di coprire la violenza come mezzo di sopravvivenza prima e di posizionamento sociale poi. La conseguenza è lo sviluppo di un cortocircuito intellettivo nei soggetti che sono stati più sensibili e ricettivi a questi dettami (stigmatizzazione della violenza) e non sono stati in grado di modulare l’uso della forza nella loro esistenza, trovando come soluzione l’eliminazione del richiamo più vivo a questi comportamenti, la carne degli animali appunto. Vi è quindi una ricerca di coerenza personale che non è, e non può essere, assoluta; infatti anche un biscotto ha nel suo processo produttivo incorporati violenza, sfruttamento, impatto ecologico, ma se non viene percepito tutto va bene e il prodotto viene consumato.
Da altri soggetti la coerenza etica viene raggiunta più facilmente se viene dimostrato, anche solo a parole, che gli animali che mangiano sono stati trattati in una certa maniera, cresciuti in un certo tipo di allevamento, venduti con un’etichetta di ecosostenibilità o di tipo equo-solidale ecc.: «Anche Willets (1997) accenna a questo processo [la produzione di carne vista come una forma di violenza da evitare] quando nota che per alcuni dei suoi intervistati mangiare carne prodotta e lavorata secondo criteri sostenibili è un modo per “esibire le proprie credenziali ambientaliste, e riflette un atto non di indifferenza o di dominio sugli animali ma di identificazione con essi» (Beardsworth, 2004:559).
Questa accettazione della carne se è stata prodotta secondo determinate regole, si può anche interpretare come un modo per pulirsi la coscienza allontanando da sé la responsabilità dell’atto violento, della morte e dello sfruttamento dell’animale; dall’altro lato, però,  la conoscenza del processo produttivo riduce le paranoie sulla possibile sofferenza degli animali e sulla qualità delle carni mangiate, quasi a riportare il tutto in un alveo di “naturalità” che garantisce sia in termini psicologici che qualitativi. La ricerca di questo tipo di giustificazione etica nasce più che altro perché alcuni tipi di vegetariani hanno una percezione particolare per la quale la carne può essere veicolo di avvelenamento a causa dell’uso di sostanze farmaceutiche, ormoni e antibiotici somministrati lungo il processo di allevamento; la sofferenza dell’animale, in questo caso, passa decisamente in secondo piano se non relativamente alla percezione che un animale maltrattato possa dare carne di sapore sgradevole e magari nociva per l’uomo. È questo, quindi un approccio egoistico e non empatico come possono avere altre forme di vegetarianismo.>>


(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)



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