sabato 30 giugno 2012

Critica alla FAO

<< Caso studio: critica alla FAO

La FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations), come dice il sito stesso dell’organizzazione, «guida gli sforzi internazionali per sconfiggere la fame. Agendo sia nei Paesi sviluppati che in via di sviluppo, la FAO si comporta come un forum neutrale dove tutte le nazioni si incontrano alla pari per negoziare accordi e dibattere le linee programmatiche e di condotta. Noi aiutiamo i Paesi in via di sviluppo e quelli in transizione a modernizzare e migliorare l’agricoltura, la selvicoltura e la pesca, e assicurare a tutti una buona alimentazione. Dalla fondazione, nel 1945, una particolare attenzione è stata dedicata alle aree rurali in via di sviluppo, che accolgono il 70 percento della popolazione mondiale povera e affamata» (http://www.fao.org/about/en/).
Dai dati che emergono ogni giorno e che troviamo sullo stesso sito della FAO, la fame del mondo non è assolutamente stata ridotta. Anzi è aumentato il numero delle persone che in termini assoluti muoiono di fame, anche perché la crescita numerica della popolazione ha un andamento esponenziale. Se ne deduce che la FAO negli ultimi anni ha sempre fallito i suoi obiettivi.
Emerge il dubbio che queste organizzazioni siano create dai paesi occidentali per esercitare un controllo psicologico sulle popolazioni dei paesi più poveri, nonché per dare a quelle dei paesi ricchi una parvenza di azione mirata a risolvere una realtà drammatica in cui empaticamente si sentono coinvolte.
Quindi, come notano Colombo e Onorati (2009:45), sono continui e ripetitivi i messaggi di soluzione alle criticità del mondo: «Così come le colpe e le assoluzioni, anche le ricette [alle crisi alimentari ed energetiche] sono evocate come dei mantra ipnotici».
Si coinvolgono gli scontenti per far loro credere, ad esempio, che: «il Vertice Mondiale sull’Alimentazione (che nel 1996 impegnava gli stati a dimezzare il numero degli affamati per il 2015), il successivo Summit del 2002 (che fece un amaro punto sui mancati progressi di quell’impegno, ma che poneva le basi per l’adozione di un codice di condotta sul diritto al cibo), la Conferenza sulla Riforma Agraria e lo Sviluppo Rurale di Porto Allegre del 2006 rappresentano tre appuntamenti di grande rilevanza in cui la FAO e la società civile organizzata hanno saputo intavolare un dialogo costruttivo, basato sul riconoscimento dell’autonomia e sull’importanza della partecipazione» (Id., 2009:52). Ma, anche se vi è stata la dimostrazione di un dialogo costruttivo, tutto si è fermato a quello. E così ci saranno tanti altri Summit che cercheranno di trovare risposte a ciò che praticamente non si può risolvere, ma aiuteranno a sopportare le iniquità presenti nella vita e nel mondo.
Per capire il trend delle sempre nuove soluzioni individuate per i problemi atavici della malnutrizione, riportiamo dalla stessa fonte che negli ultimissimi anni – per i vari Relatori Speciali delle Nazioni Unite per il diritto al cibo – la «sovranità alimentare e produzione di cibo su piccola e media scala in chiave agroecologica» sono la soluzione ai problemi agricoli e di accesso al cibo. Questa seppur suggestiva ipotesi non servirà, purtroppo, ad aiutare le popolazioni ed i popoli poveri del mondo; al massimo, se mai verrà messa in atto, servirà nel migliore dei casi ad abbattere l’impatto dell’inquinamento o a posticipare il momento del collasso del pianeta. La funzione precipua è quella di far credere a chi inizia a percepire il collasso del pianeta, o a chi lo sta già subendo, che ci si stia dando da fare.
«Nel contesto delle Nazioni Unite, quel che l’IPC [Comitato Internazionale per la Sovranità Alimentare – organismo che facilita l’emersione dei movimenti che rappresentano i piccoli produttori di cibo] ha ottenuto presso la FAO è rilevante, se si comprende che in tali spazi internazionali dell’ONU i processi richiedono molto tempo. Al movimento indigeno sono serviti più di 20 anni per ottenere l’adozione della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni» (Colombo e Onorati, 2009:241). A parte il fatto che bisognerebbe valutare l’effettiva portata di tutte queste Dichiarazioni che rimangono sulla carta, quello che preme sottolineare è che la lentezza della FAO e dell’ONU è funzionale al non cambiare nulla. Con il tempo chi ha iniziato le sue battaglie e le sue guerre ideologiche smorza la sua foga, invecchia, si demoralizza o si sente appagato, oppure semplicemente muore e avanti così, con sostituti che hanno altre idee e nuovi obiettivi con la conseguenza che il processo ricominci tutto da capo e il mondo mantenga il suo equilibrio tra sfruttati e sfruttatori.
Ed infatti la FAO è permeabile alle esigenze del mercato: «L’influenza della GDO comincia ad emergere anche nella FAO quando scrive che “il contract farming [i contratti di coltivazione, N.d.A.] ben organizzato sembrerebbe offrire uno strumento importante attraverso il quale i piccoli produttori possono coltivare in una forma commerciale. Similmente, offre agli investitori l’opportunità di garantire una fonte affidabile di fornitura, sia sotto il profilo della qualità che della quantità”. Sono gli stessi Stati membri a raccomandare formalmente un impegno della FAO a sostenere questa modalità di produzione e distribuzione nel corso delle conferenze regionali della FAO in Medio Oriente o in Europa. La GDO diviene così un nuovo commensale alla tavola della global governance su agricoltura e alimentazione» (Id., 2009:252-253).
I gruppi privati collaborano con i governi per indirizzare le politiche della FAO e cercare nuovi sbocchi di mercato stimolando il consolidarsi di triangolazioni fra agenzie intergovernative, grandi corporation e fondazioni filantropiche, come le fondazioni Gates, Rockefeller, Sygenta o Clinton, che contribuiscono a forgiare le politiche agricole governative e intergovernative ponendo particolare enfasi sull’impulso alle tecnologie agricole. È chiaro, visto che non ci sarà mai la risoluzione del problema della fame nel mondo, che queste azioni sono portate avanti in funzione di guadagni personali, anche se abilmente mascherati. Infatti «l’altruismo filantropico a vantaggio degli affamati si costruisce investendo nell’azionariato del junk food: l’abbattersi della crisi finanziaria ed economica anche su questi magnati e sulle loro operazioni umanitarie ha infatti spinto la fondazione Gates a reagire con una strategia anticiclica di diversificazione degli investimenti, incrementando la sua partecipazione in McDonald’s dai 4,9 milioni di azioni del mese di settembre 2008 a 6,4 milioni a dicembre, aumentando anche la quota in Coca Cola da 1,7 a 5,7 milioni di azioni» (Id., 2009:254).
Con il grimaldello di una filantropia opportunista, si conquista la possibilità di entrare su nuovi mercati.
Ma proprio per sottolineare come i governi influenzino e facciano pressioni sulla FAO a prescindere da tutte le Dichiarazioni, le riunioni ed i convegni con le parti più deboli il passaggio seguente è molto esplicativo: «La nota formale indirizzata al Direttore Generale della FAO da Canada, Australia, Giappone, Inghilterra, USA e Germania il 4 aprile 2006 gli ricorda in modo poco cortese o diplomatico che loro, come “principali paesi donatori” esprimono “forti raccomandazioni” sul ruolo della FAO... […] In effetti, le discussioni tra gli stati per ridisegnare la FAO del futuro attraverso la riforma delle sue strutture e del suo mandato fondamentale (combattere la fame e la povertà attraverso il miglioramento delle condizioni di vita economiche e sociali di coltivatori rurali più poveri), testimoniamo il tentativo di un gruppo di paesi donatori di dotarsi degli strumenti di governo del Pianeta» (Id., 2009:256-257).
Dal sito ufficiale dell’organizzazione, riportiamo anche che la FAO sostiene come impegno fondamentale «garantire a tutti la sicurezza alimentare per assicurare alla popolazione un accesso regolare ad alimenti sufficienti e di buona qualità per una vita attiva e sana» ed inoltre che «il mandato della FAO è di elevare il livello di nutrizione, aumentare la produttività agricola, migliorare la vita delle popolazioni rurali e contribuire alla crescita dell’economia mondiale».
Le campagne dichiarate della FAO sono sempre fallite o non sono mai state messe in atto? Rispondiamo che la vera funzione della FAO è stata quella di mantenere in equilibrio l’economia di sfruttamento posta in atto nei vari paesi, riducendo le rivoluzioni e le sommosse popolari cruente che vanno a ridurre le potenzialità economiche del sistema mondo. In più, nei paesi ricchi, è servita come strumento di lavaggio della coscienza per le malefatte compiute. Le varie assemblee e riunioni fatte nel mondo, con dibattiti falsamente democratici, hanno funzionato da ricettacolo delle rabbie represse e delle frustrazioni dei popoli deboli ed affamati, ma in realtà i giochi sulla loro pelle venivano fatti altrove.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

giovedì 14 giugno 2012

McDonaldizzazione 3/3

<< Caso studio: McDonald’s licenza una dipendente per una fetta di formaggio

Una commessa dipendente della catena McDonald’s è stata licenziata in tronco interrompendo con 5 mesi di anticipo il contratto a tempo determinato che la legava alla società per aver aggiunto una fetta di formaggio al panino, regolarmente pagato, destinato ad un collega. Un semplice hamburger era così diventato un cheese burger ed il collega avrebbe dovuto pagare un supplemento di qualche centesimo di euro (Corriere della Sera, 27 gennaio 2010).
La società ha ritenuto di essere stata danneggiata dal gesto compiuto dalla commessa, considerato una violazione delle regole interne che prevedono appunto il divieto di trattamenti di favore nei confronti di amici, famigliari o degli stessi colleghi.
Il giudice della città di Leewarden (Nederlands) ha ritenuto davvero spropositata la misura del licenziamento per una violazione di così lieve entità. Secondo il tribunale un semplice avvertimento sarebbe stata una misura più che sufficiente. La catena di fast food è stata condannata a risarcire la propria ex dipendente con una somma di circa 4200 euro, ovvero la somma corrispondente ai cinque mesi di lavoro persi.
Questo fatto ci fa capire come i dipendenti di questa catena (ma comunque in generale in queste forme di ristorazione) sono considerati come delle “bestie”, non una risorsa su cui investire, per cui vanno sfruttati e spaventati. Inoltre la mancanza di flessibilità della direzione ne ha dimostrato anche la stupidità, visto il maggiore danno procurato in termini di costi superiori. Anche se forse in questo caso funziona comunque il detto “punirne uno, per educarne cento”.
Va analizzato lo spropositato potere della multinazionale sul dipendente: oltre a non dargli sicurezza per il futuro, perché solitamente il lavoro riguarda contratti a tempo determinato e ad alto turnover, può rovinargli la vita. Se il più piccolo errore viene considerato così gravemente, si verifica una oggettiva condizione di sudditanza psicologica nella quale è facile subire angherie e limitazioni della libertà.
Nel caso in oggetto, ad equilibrio parziale, ha agito l’autonomia della magistratura, ma si può capire che nel momento in cui azioni di lobby di alcuni gruppi economici ricattino lo Stato, le istanze del singolo saranno facilmente calpestate. Infatti il riconoscimento del danno economico e morale a questa dipendente è stato davvero irrisorio.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

martedì 12 giugno 2012

McDonaldizzazione 2/3

<< Per adattarsi all’etica del consumatore, la catena di ristoranti McDonald’s ha agito anche in altre direzioni, perché per penetrare il mercato bisogna tener conto di vari altri aspetti etici e non solo della percezione degli animali, dell’impatto ambientale e delle condizioni del lavoro: «[...] i McDonald’s si sono dovuti adattare ovunque ai gusti locali spesso influenzati da norme religiose: in Israele, per esempio, si vendono Big Macs senza formaggio per non contravvenire alle norme Kosher della cucina ebraica che richiedono la separazione di carne e latticini; in India si servono soprattutto Maharajah Mac, con carne di montone, che possono essere consumati sia dai Mussulmani che non mangiano maiale, sia dagli Hindu che non possono cibarsi di carne bovina» (Sassatelli, 2004:478). L’adattamento alle norme religiose è quindi un altro aspetto dell’etica nella ristorazione.
Quindi, quello che McDonald’s ha globalizzato è la tecnica produttiva e di vendita, più che il menù, che si è adattato all’etica alimentare e alle abitudini dei luoghi dove ha aperto nuovi punti vendita.
«Da tempo, l’offerta dei prodotti è stata adeguata alle abitudini alimentari locali, anche se la penetrazione di McDonald’s è oggi ostacolata da catene che interpretano culture diverse. Ad esempio, a Parigi, in un sobborgo abitato da immigrati arabi, nasce nel 2005 il Beurger King Muslim, il primo fast food mussulmano e il primo locale in Europa a utilizzare carni macellate secondo il rito islamico» (Franchi, 2009:160-161). Questa evoluzione dei consumi cerca di soddisfare le etiche religiose e politiche poiché le multinazionali hanno dei concorrenti locali che magari meglio interpretano le esigenze di appartenenza dei vari consumatori nei diversi paesi: «La ricerca di consumi che aderiscano a modelli globali e siano nel contempo ancorati alla tradizione è oggi più forte. Non a caso, nei paesi islamici le vendite della Coca-Cola sono precipitate insieme a quelle di altre famose marche americane a causa dei sentimenti antiamericani. [...] In alternativa alla bevanda americana, arriva dall’Iran la Zam Zam Cola […] Il prodotto viene confezionato da una società che ha operato da una cinquantina d’anni nel settore delle bevande e che fu per un certo tempo partner della Pepsi-Cola» (Franchi, 2009:161).  I metodi produttivi non dovrebbero distaccarsi molto da quelli occidentali, che già impongono dei dubbi etici, eppure questi consumi gratificano l’etica dei consumatori e la loro forma mentis ideologizzata.
E così, per meglio interpretare i gusti dei consumatori dei nuovi mercati, si fanno anche degli investimenti in ricerca: «Nel 2006 McDonald’s apre un centro studi culinari a Hong Kong, base per l’attività in Asia, Australia, Medio Oriente, Africa e lì crea menù locali, come i McArabia e i McCina» (Ibidem).
Tutte le operazioni di marketing hanno poi la funzione di mascherare la mattanza degli animali e accentuare la destrutturazione dell’animale nell’hamburger mangiato, per non ricondurlo all’animale ucciso.
In conclusione, dobbiamo rilevare l’impatto ambientale esercitato da parte degli schiavi del mondo ricco (i suoi poveri relativi) che li manda a mangiare al McDonald’s. Sono gli stessi che, all’uscita, inconsapevoli del meccanismo in cui sono inseriti, danno anche un’offerta alla lega antivivisezione o a Greenpeace. Questo è davvero un paradosso.

Quando si parla di McDonald’s, non si può evitare di toccare il suo fenomeno antitetico per eccellenza: lo Slow Food. Questo movimento, che ha un carattere fortemente eticizzato e fornisce quindi fortissime storture nella percezione dell’alimento e dell’alimentazione, si vuole differenziare dal fast food e allontanare dalla frenesia della vita moderna.
Posto che il fenomeno necessiterebbe di un’analisi più approfondita, ci limitiamo a dire che, praticamente, non c’è differenza tra McDonald’s e lo Slow Food dal punto di vista dei loro messaggi nel senso che, quali essi siano, sono entrambi fuorvianti; ognuno, comunque, nella direzione di gratificare esigenze etiche ed alimentari.
«Qualche mese dopo la caduta del muro di Berlino, nell’estate 1989, la McDonald’s Corporation annuncia l’apertura del suo primo ristorante nella Germania Orientale. Il primo Mc Donald’s nasce proprio a Plauen, una piccola città dell’Europa dell’Est dove si era svolta la prima dimostrazione di massa contro il governo comunista. Nello stesso periodo si tiene a Berlino la prima manifestazione del movimento internazionale dello Slow Food, inaugurato con un banchetto per cinquecento ospiti. […] I due episodi sono emblematici di come il cibo catalizzi l’aspirazione a una fase di valorizzazione dei bisogni di consumo dopo la lunga compressione operata dal regime comunista. Sul cibo si misurano le prime conquiste della democrazia e si esprimono, nel contempo, le due anime che sottendono i comportamenti alimentari: una segnata dalla modernizzazione, dalla diffusione di cibi a basso costo a masse crescenti di popolazione, l’altra orientata alla riscoperta della tradizione, alla valorizzazione della qualità e della dimensione locale» (Franchi, 2009:160).
McDonald’s in realtà vende un’immagine di democrazia e modernità dove tutti possono entrare, sanno quello che spendono, si sentono a casa ed accettati. Dall’altra lo Slow Food, anche se si autodefinisce “buono e giusto”, in pratica è elitario e lo deve rimanere perché consumare slow food implica cultura e disponibilità economica. Quindi, a differenza dell’autrice del libro, la nostra analisi identifica in questa casuale concomitanza di eventi, l’essenza del cibo come veicolatore dell’etica e delle pulsioni di ognuno di noi. In quella determinata area era stata impedita l’espressione di queste pulsioni. Caduto l’impedimento, l’esigenza torna ad esprimersi in entrambe le direzioni, anche se, alle volte, con eccessi richiesti da disagi psicologici e nevrosi alimentari.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

sabato 9 giugno 2012

McDonaldizzazione 1/3

<< McDonaldizzazione

Affrontando l’argomento dell’etica agroalimentare nel settore della ristorazione, non si può evitare di parlare della catena di ristoranti McDonald’s, una realtà nella quale possiamo ritrovare la maggior parte dei dubbi etici della filiera alimentare; per inciso:
- Sfruttamento e limitazioni delle libertà della forza lavoro.
- Qualità nutrizionale del prodotto alimentare, influenze sulla dieta, ingredienti, additivi.
- Utilizzo di animali e carni, sia per quanto riguarda la mattanza che per l’impatto ecologico che ha allevare gli animali.
- Pubblicità, marketing ed influenza sui minori.
- Utilizzo degli imballaggi e impatto degli stessi sia come produzione che come rifiuto.
- Spreco di prodotto alimentare ancora edibile.
«Sempre di più, la gente mangia fuori e molto cibo è acquistato attraverso i punti vendita Fast-Food. Per esempio, l’azienda americana McDonald’s, che ora opera in molti Paesi del mondo, ha basato i suoi affari  su “i quantificabili principi di velocità, volume e basso prezzo... [con] l’offerta per i clienti di menù fortemente limitati e definiti usando procedure da linea di assemblaggio per la preparazione e la somministrazione del cibo” (un fenomeno chiamato McDonaldizzazione). Quasi inevitabilmente, il cibo veloce ha gravi conseguenze sulla salute pubblica» (Mepham, 2008:271).
L’approccio che viene dato alla realtà di questa catena di ristoranti impone già un’idea etica di tipo negativo, anche se non necessariamente accentuata.
Nel contempo, però, è necessario ricordare la grandissima valenza democratica dei ristoranti McDonald’s: quando si entra nel ristorante si è tutti uguali. Inoltre, per le classi poco abbienti, trovare della carne cotta, sana, di quella qualità, a quel prezzo, è quasi impossibile altrove. Pensiamo a qualcuno che non si può permettere una casa con una cucina o, per le condizioni economicamente difficili in cui si trova, non ha la possibilità o il tempo per cucinarsi e consumare dei pasti caldi. Ne sanno qualcosa anche i tantissimi migranti e turisti, che si possono trovare in difficoltà e ricercano cibo a buon mercato e gratificante. Entrano in un posto dove nessuno richiede particolari dress-code e il meccanismo di acquisto è standardizzato, dove sai esattamente quanto costa il prodotto e non ti puoi sbagliare e dove non si pongono grandi barriere linguistiche: tutti possono ritrovarsi a casa in questi luoghi, proprio perché magari lo hanno già sperimentato da qualche altra parte.
«McDonald’s si rivolge al gruppo dei consumatori che ha l’attaccamento minimo alla tradizione: i bambini e i giovani. Per assicurarsi giovani clienti le catene di fast food hanno cercato alleanze strategiche  con aziende produttrici di giocattoli, con squadre sportive, con studi di Hollywood» (Franchi, 2009:162). La tecnica è semplice: lavora sul loro cervello finché sono piccoli, quando le connessioni nervose sono ancora plastiche, per non uscirne mai più. Al punto che la tradizione, l’abitudine, per questi bambini diventa McDonald’s, complice una classe genitoriale senza senso critico che purtroppo è a sua volta inserita in un sistema di sfruttamento che la rende pedina del sistema produttivo e consumistico. Questi genitori potrebbero essere definiti come “soggetti-bestie” insieme ai loro figli: devono consumare, e quella è la loro valenza nel sistema in cui sono inseriti; sono soggetti ipnotizzati tramite le tecniche dello Show Business e dello Sport Business. Ad un certo punto, non riescono a contrastare i flussi informativi della società e vengono “sballottati” da una parte all’altra a consumare e, in questo caso, ad ingozzarsi di quello che gli viene proposto-imposto.
«Il modello [McDonald’s] è stato sottoposto negli anni a critiche sempre più feroci in quanto sinonimo di cibo di bassa qualità e anche per le condizioni di lavoro praticate, per i metodi di allevamento intensivo del bestiame e lo scarso rispetto per la salute e l’ambiente» (Ibidem). Si sono creati così dei movimenti culturali, sfociati anche in violenze, contro la catena del McDonald’s come simbolo negativo della globalizzazione, dello sfruttamento dei lavoratori, dell’allevamento intensivo e non rispettoso dell’ambiente.

Gli “attacchi” alla catena di fast food McDonald’s, sia in termini di gruppi no-global ed ecologisti, sia in forma artistica o comunicazionale, sono sotto molti aspetti controversi. La prima domanda che ci si può porre è: se ogni punto vendita della catena avesse un nome diverso, in tutto il mondo, l’accanimento sarebbe uguale? Ci sarebbe quindi lo stesso impatto inquinante, se non maggiore, viste le ridotte economie di scala applicabili sugli imballaggi; la percezione sarebbe differente? Siamo sicuri che non ci siano anche ristoranti a 5 stelle che inquinano, anche di più, e che distruggono le biodiversità? Forse questi non vengono attaccati perché non si percepisce il loro inquinamento, o nessuno ne parla male perché rientra nel diritto dei ricchi sfruttare senza ritegno le risorse naturali e i propri lavoratori? Perché, se è vero che le produzioni agricole che riforniscono le catene di fast food riducono la biodiversità per il depauperamento dei terreni, per le monoculture e l’allevamento di un ridotto numero di specie animali su vaste aree, dall’altro abbiamo anche ristoranti o singoli che utilizzano per il loro godimento culinario specie in via di estinzione, ad esempio i ricci di mare consumati in tante trattorie del lungomare italiano.
Ad un certo punto potrebbe anche essere che prendersela con McDonald’s sia come sparare sulla croce rossa per non attuare adeguate ricerche su tutti i fautori del degrado ambientale conseguente alla produzione e alla somministrazione di alimenti. Diventa uno sfogo delle nevrosi sociali, nemmeno più alimentari.
Il punto da analizzare è che una rappresaglia nei confronti di McDonald’s, se fatta creando dei danni materiali e di immagine, è perseguita dalla legge in nome di una azione unilaterale che non distribuisce le responsabilità attribuite a McDonald’s su tutti gli attori della situazione. In altre parole, se spacchiamo la vetrina del McDonald’s di Toronto in Bloor Street West perché McDonald’s Inc. inquina il mondo, non possiamo fargliela pagare solo a quel franchesee (affiliato) che ha fatto un investimento magari discutibile (per qualcuno) ma consentito dalla legge. Tra l’altro, se non siamo d’accordo sulle modalità del business, nessuno ci obbliga ad entrare e consumare in quel locale.
In questa prospettiva il comportamento degli ambientalisti che si sentono salvatori del mondo (per loro il comportamento etico significa questo), non considerando che tutto è destinato a finire (come il mondo del resto), è alquanto controverso e presenta  comunque degli aspetti megalomani se non addirittura patologici. Si può addirittura asserire che costoro non hanno fondamentalmente capito cos’è la vita o hanno un approccio distorto e illusorio rispetto ad essa.
Dall’altra, le sinergie della catena McDonald’s con i gruppi ambientalisti esprimono in certa misura un cortocircuito intellettivo macroscopico: «McDonald’s si è alleato con Greenpeace nelle “campagne verdi” [...]» (Franchi, 2009:162).
Il fatto che questi gruppi ambientalisti accettino la collaborazione della multinazionale (in pratica soldi) per finanziare progetti di salvaguardia della foresta amazzonica, stabilisce di fatto che la mattanza dei bovini e dei polli va bene (o è accettabile) determinandone un declassamento. Ma questo declassamento è di tipo etico, cioè riguarda solo la considerazione che l’uomo ha di questi animali e non ha una corrispondenza in natura. Qui si inserisce il discorso dell’etica neurale rispetto a cosa sia la coerenza, e della preponderanza della coerenza percepita o ricercata tramite azioni che scaricano il dubbio etico. Se non si collega un hamburger con un animale morto, è chiaro che basta poco per rasserenare gli animi. Così, per il consumatore, sapere di queste collaborazioni con associazioni ambientaliste gratifica e crea una giustificazione etica a chi la richiedeva e consente a McDonald’s di recuperare dalla flessione delle vendite derivanti dalle critiche di imperialismo gastronomico che le sono state attribuite negli anni.
Inoltre, seguendo i principi degli ambientalisti, non ci dovrebbero essere distinzioni tra gli animali e allora, grazie a queste collaborazioni, si possono dedurre due cose:
1) Si identifica una “linea di demarcazione” etica, sotto la quale i nostri dubbi non si esplicano più (in pratica un bovino allevato apposta allo scopo di macellazione non crea più alcun dubbio etico).
2) Per quanto riguarda la gratificazione etica e lo scarico del disagio psicologico (allontanamento della responsabilità della morte) basta sapere che, a grandi linee, si fa qualcosa per gli animali, così da allontanare l’ansia e la rabbia di un pensiero che non si riesce a sostenere.>>
(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

martedì 5 giugno 2012

L'evoluzione nella percezione degli animali


<< Caso studio: evoluzione nella percezione degli animali

Si vuole considerare ora questo tema che si collega all'animale che può essere considerato, in contemporanea, sia come fonte nutrizionale ma anche come una categoria di essere vivente che entra nella nostra vita come elemento di compagnia.
Partiamo da un caso che ha fatto scatenare l’opinione pubblica italiana e la cui eco si è ripercossa anche su testate giornalistiche internazionali: un collaboratore della RAI, durante una trasmissione, ha proposto una ricetta tradizionale per cucinare il “gatto”. Il presentatore è stato sospeso a seguito delle proteste di telespettatori, di associazioni animaliste e per l’intervento di un rappresentante del governo. L’episodio, che potrebbe per certi aspetti sembrare folcloristico, in realtà ci aiuta a scoprire molto sulla nostra etica alimentare e sull’evoluzione che ha avuto nel tempo.
Per analizzarlo introdurremo delle domande che ci aiuteranno ad inquadrare il problema.
Perché alcuni animali possono essere considerati alimenti ed altri no? Chi decide quale animale si può mangiare? Perché oggi non si mangia più il gatto? Ci sono animali che possono essere macellati e altri no? Chi lo stabilisce? Secondo quale principio? Gatti e cani sono esseri biologicamente superiori rispetto ad altre specie di animali edibili? Sono meritevoli di maggiore tutela? Che differenza c’è tra gatto e coniglio? (Quest’ultimo, per esempio è allevato in Italia a scopo alimentare mentre in Nord America e Gran Bretagna è considerato un animale da compagnia).
Vediamo di introdurre dei punti che ci servano da traccia teorica (o sommario):
1- L’evoluzione della società e della giurisprudenza sulla materia di rispetto degli animali.
2- Il cambiamento della percezione degli animali anche in rapporto agli animali da compagnia e di affezione.
3- Gli animali da compagnia come parafulmine delle nevrosi della società (visto che lo sono già nelle famiglie).
4- L’infantilismo della società.
5- La creazione di un mercato che sfrutta il disagio etico delle persone o la non evoluzione del pensiero (cibo e accessori per animali domestici, sviluppo dei relativi servizi veterinari; la politica e le associazioni di difesa degli animali).
6- La funzione dei media nell’impatto di una notizia e sulla percezione dell’animale.

Analizziamo i primi due punti. Dal punto di vista nutrizionale, l’animale gatto non ha subito modifiche e, seppur consumato in Italia fino al primo dopoguerra al pari del coniglio, ora la sua accettazione come alimento è molto ridotta nella popolazione.
Se in Gran Bretagna e nel Nord America si svela che in Italia si consumano conigli e cavalli per la nutrizione umana, la maggior parte delle persone esprime disgusto. Lo stesso accade se si racconta agli italiani che i cinesi mangiano cane e selezionano pure le razze migliori per questo scopo culinario. Questa è la conseguenza del fatto che ognuna di queste specie rappresenta un animale da compagnia (o di affezione) a seconda del Paese in cui ci troviamo.
Ne deriva che la percezione dell’animale è alterata rispetto alle altre specie viventi. La differenza tra un maiale ed un gatto non avviene in termini biologici, ma a livello cerebrale, psicologico; si tratta di etica personale, ma nel momento in cui è condivisa da molti (magari anche insegnata) si traduce in morale sociale.
La cosa può essere anche valutata da un altro punto di vista. Infatti il contadino si affeziona al suo maiale, gli vuole in un certo senso anche del bene, lo “protegge” e lo nutre perché, anche se sarà lui stesso a ucciderlo, questo animale procurerà l’alimento o la ricchezza per l’inverno; questo è un caso diverso di come si può strutturare un’etica nei confronti di un animale e dimostra che non c’è un modello univoco.
Va anche considerato che l’accrescersi delle possibilità economiche ha trasformato il gatto da animale semi-selvatico legato all’uomo in quanto limitava i danni provocati dai topi ai suoi raccolti, ad animale umanizzato. Da un lato la ricchezza ha consentito alle persone di mantenere un animale domestico e dall’altro il gatto (e il cane) hanno delle caratteristiche dimensionali e genetiche che lo rendono adattabile agli ambienti della vita familiare umana. Nel contempo la società ricca ha consentito un’evoluzione del pensiero e dell’affezione verso gli animali perché non c’era più la lotta per la sopravvivenza ma si è cercato di soddisfare altri tipi di esigenze.
Parallelamente sacche di popolazione, per lo più relegate in zone rurali e legate alla tradizione, non hanno accolto nella stessa maniera questi cambiamenti mantenendo la percezione arcaica dell’animale.
In questo contesto disomogeneo, è interessante osservare come la regolamentazione statale cerca di trovare un equilibrio sociale. Rimanendo sulla situazione italiana, ricordiamo due sue caratteristiche peculiari: 1) L’Italia è da sempre stata all’avanguardia nella legislazione. 2) A differenza di altre culture, quella italiana è caratterizzata da una forte empatia verso gli altri.
Non è di nostro diretto interesse, ma ricordiamo che l’ordinamento italiano tutela gli animali da affezione con la legge 281 del 1991 che nell’art.1 comma 1 recita: «Lo Stato promuove e disciplina la tutela degli animali di affezione, condanna gli atti di crudeltà contro di essi, i maltrattamenti ed il loro abbandono, al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l’ambiente». L’articolo 544-bis del Codice Penale sancisce poi che «chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale, è punito con la reclusione da 3 mesi a 18 mesi».
La legge italiana ha quindi delle evidenti sottigliezze e continuerà ad evolvere a seconda delle esigenze della società e del cambiamento dell’etica e della morale della stessa.
Anche a livello europeo la Convenzione di Strasburgo reca norme piuttosto severe nel campo della protezione degli animali; è interessante questa evoluzione legislativa sia a livello italiano che europeo, ma per quanto ci riguarda ci fermiamo qui.
In ogni modo, paese che vai, etica alimentare che trovi. In India la mucca è sacra mentre in altre parti del mondo è macellata a ciclo continuo oppure sottoposta a sforzi produttivi non indifferenti che ne riducono la longevità; in Africa, di sicuro in Camerun, la scimmia viene mangiata.
Cerchiamo ora di capire come la comprensione “dell’umanizzazione” dell'animale possa passare attraverso un’analisi neuro scientifica; sono due gli elementi che vanno evidenziati: 1) si è formata a livello di uomo una diversa percezione dell’animale; 2) a livello dell’animale, ad es. gatto, il comportamento umanizzato è la conseguenza di un adattamento che ha comportato uno sviluppo neuronale alternativo su una genetica pressoché immutata.
Fondamentalmente, i comportamenti umanizzati dell’animale sono dei riflessi condizionati ed incondizionati (anche semplicemente di tipo pavloviano) per garantirsi il cibo. L’animale quindi modifica il suo comportamento e alcuni soggetti umani lo interpretano (a loro vantaggio) come espressione di affetto.
Molte altre teorie del settore, invece, fanno una differenziazione degli animali (e degli esseri viventi in generale) in senzienti e non senzienti. Tutti gli animali però sono senzienti. Una distinzione tra specie edibili e non, fatta su questi presupposti, è quindi senza significato scientifico. È chiaro però che cambia il grado di sviluppo neuronale tra specie e specie, e ciò fa la differenza: riguarda la percezione della sofferenza dell’animale da parte dell’uomo, che si struttura in base al tipo di interazione e al coinvolgimento empatico che l'uomo ha con le diverse specie animali (infatti qualcuno non sopporta di vedere uccidere nemmeno un insetto).
Facciamo degli esempi e delle considerazioni. La differenza tra coniglio e gatto non è particolarmente evidente, le carni infatti possono venir confuse nel sapore e anche la struttura corporea, una volta scuoiata, è pressoché identica. Addirittura il gatto ha uno sviluppo neuronale maggiore rispetto a quello del coniglio, visto il rapporto che può instaurare con l’uomo, eppure in U.S.A. e Gran Bretagna il coniglio è considerato un animale domestico. Al tempo della guerra, in Italia, il coniglio era più “domestico” del gatto in quanto che il gatto veniva catturato e mangiato, mentre il coniglio veniva allevato e venduto per l’alimentazione umana. Anche i topi venivano mangiati durante i periodi di fame nera, ma non sono stati eliminati dalla alimentazione perché sono diventati animale da affezione, ma perché le carni non sono buone come quelle dei gatti e dei conigli.
Mangiare carne di cavallo in Gran Bretagna è considerata una depravazione, eppure in Italia è molto gradita, per quanto gli equini vengano impiegati sul territorio anche a scopo terapeutico. Da considerare che le mattanze di tonni vengono fatte regolarmente (anche di specie in via d’estinzione), ma nessuno si lamenta se ne viene proposta una ricetta in televisione, e del resto non c’è rapporto di affettività con questo tipo di animali. Il gatto non è una specie in via di estinzione eppure suscita più risentimento se ne viene ucciso anche uno solo rispetto a migliaia di tonni. Anche se i pesci non fanno rumore, soffrono egualmente quando vengono uccisi, ma all’uomo fa meno impressione e quindi non vi è presa di posizione in grado di influenzare l’opinione pubblica. Stesso discorso si potrebbe fare sulle aragoste immerse vive nell’acqua bollente, o per i maiali che sono intelligenti ed affettuosi quanto un gatto, eppure le attenzioni che gli riserviamo sono decisamente diverse.

Analisi dei punti 3) e 4). Lo sviluppo della legislazione sulla protezione degli animali da compagnia si può riscontrare anche in rapporto alle funzioni di questi animali nella società: sono efficaci in certe terapie; scaricano le nevrosi familiari e personali; catalizzano l’esigenza di esprimere affetto; fanno compagnia alle persone sole.
La società ricca ed opulenta ha al suo interno tutta una serie di patologie e disequilibri che alle volte gli animali domestici riescono a lenire compensando la perdita di alcune delle caratteristiche di solidarietà e convivialità che c’erano un tempo, anche per una struttura diversa della famiglia ed una diversa mobilità delle popolazioni. È la nostra una società parcellizzata che riversa le sue esigenze di affetto sugli animali che addomestica e a cui attribuisce dei comportamenti umanizzati di comprensione e corresponsione delle attenzioni che gli riserva. Forse è vero che gli animali riescono a capire gli atteggiamenti dell’uomo (o almeno alcuni dei suoi stati d’animo), ma rimangono semplicemente degli animali, con una genetica ed un comportamento che non sono completamente comparabili all'uomo.
Sugli gli animali domestici, però, si sfogano tutte le frustrazioni e le incapacità di vivere perché il rapporto con l’animale è diretto e meno mediato. È per mera esigenza personale che si interpreta il comportamento dell’animale in maniera umanizzata a seconda di ciò che ci manca nella vita: un figlio, un partner, un amico. Questi comportamenti sottostanno alle nostre incapacità a stare con gli altri, riducono le nevrosi della vita e sono uno sfogo per le paranoie. Questo denota anche un cronico infantilismo della nostra società che si mette al pari dell’animale perché non vuole crescere. Inoltre più di una scatoletta o di una carota questi animali di affezione non chiedono, e non serve essere maturi per venire accettati.
Una distorsione si verifica anche nell’affetto che si da agli animali con i quali il rapporto dovrebbe essere neutro. Siamo geneticamente programmati per avere sentimenti e sensazioni (che tra l’altro ci hanno resi più competitivi rispetto ad altre forme di vita della terra meno evolute neurologicamente di noi). Come conseguenza si scarica l’affetto “umano” (cioè destinato ad altri esseri della nostra stessa specie) sugli animali da compagnia, così da averne una percezione particolare (di conseguenza, umanizzata). È un atteggiamento culturale diffuso e che viene trasmesso ai bambini tramite la televisione e altri media, oltre che dai genitori e dalle istituzioni religiose. Molti bambini infatti subiscono uno shock quando scoprono che il loro tenero micetto gli ha fatto fuori il canarino o il pesciolino rosso. Nella cultura contadina ciò succedeva con meno frequenza.

Analisi del punto 5). Come conseguenza a tutto ciò che si è detto fino a qui, si crea tutto un mercato che sfrutta queste problematiche e questo infantilismo facendo leva sul disagio etico delle persone o sulla mancata evoluzione del pensiero, e la cosa assume una forte valenza economica. Viene quasi più insegnato ad amare un animale che ad amare l’essere umano; c’è quasi la venerazione dell’animale domestico al quale bisogna dedicare attenzioni e cure (interessante che molte volte si dimentica che l’uomo è onnivoro e predatore e che questi animali, soprattutto gatti e cani, ai quali diamo tanta attenzione, sono carnivori e se gli fossimo graditi o ci vedessero indifesi ci mangerebbero a loro volta).
Un settore economico che viene stimolato da questo tipo di cultura è quello degli alimenti e accessori per animali: c’è una scelta amplissima sul mercato, con tanto di catene distributive organizzate. Un aspetto che va sottolineato e che molti dimenticano è che gli alimenti che vengono acquistati per i gatti e i cani hanno delle percentuali di componenti animali negli ingredienti; spesso sono solo degli scarti della lavorazione alimentare umana, ma nei prodotti più raffinati se ne trovano di adatte a sfamare esseri umani. Da un punto di vista etico e morale dovrebbero esserci delle proteste veementi, come avviene nel caso della caccia alle balene o dell’utilizzo di cereali per fare combustibili. Ma nessuno protesta.
Contemporaneamente, le attenzioni che molti dedicano agli animali domestici non si avvicinano lontanamente a quelle che hanno per i loro consimili: crocchettine di pollo al vapore, profumi, cappottini ingioiellati, costose visite veterinarie e successivi trattamenti farmacologici comportano spese davvero notevoli che molti non farebbero per aiutare una persona indigente in difficoltà. Con ciò non si vuole dire che questi comportamenti siano sbagliati, anzi vengono enfatizzati perché esprimono un’etica: gratificano personalmente chi li fa. Un animale è più facile da seguire che un essere umano e non da più di tanto fastidio quando ci si è stufati di averlo intorno; al massimo lo si vende o lo si fa sopprimere.
Un altro “mercato” è quello politico. La politica interviene in materia perché crea consensi su queste ansie sociali: è più facile decidere come muoversi su questo tema (un caso simile è lo sport) invece di fare una analisi delle cose a 360 gradi. In altre parole, prendere posizione su un argomento che tratta di animali è più facile che farlo su uno che tratta di attività umane. Nessun politico promuove campagne mediatiche di sensibilizzazione per i lavoratori morti sui cantieri o tenuti in condizioni di schiavitù, perché ci sono troppi interessi in gioco.
Le associazioni ambientaliste sono un esempio di questo meccanismo ed è ovvio che sfruttino ogni occasione utile per farsi pubblicità per evitare di scomparire nel mare dell’informazione, e il settore degli animali domestici è un buon passepartout. Hanno esigenza di esistere nel mondo politico per continuare ad avere sottoscrittori di tessere e finanziamenti (che vuole dire posti di lavoro) e agiscono facendo leva sulle ansie della gente che le riversa sugli animali come una pseudo-forma di amore.

Analisi del punto 6). L’importanza dei media nella vita della gente è molto alta. Le stesse argomentazioni usate in una chiacchiera in un bar o in un dibattito di una conferenza pubblica non farebbero alcun tipo di scalpore, ma se lo stesso tema è trattato a livello mediatico la gente tende a prendere una posizione più decisa, una posizione etica quindi.
È da sottolineare il fatto che se da un lato non si può parlare o mostrare immagini troppo cruente che rappresentino animali, viene però concesso di fare del brain washing mediatico conducendo delle campagne di sensibilizzazione contro il maltrattamento degli animali con modalità discutibili (non è nel nostro interesse approfondire oltre; si può rileggere il capitolo sulle pubblicità che risultano “violente” per impressionare lo spettatore). Quello che preoccupa invece è la distorsione del messaggio che viene veicolato, che allontana dalla realtà e rende schiavo lo spettatore.

A questo punto, dopo aver fatto un quadro veloce ed aver spiegato alcune dinamiche, possiamo tornare ad analizzare il caso specifico del collaboratore Rai sospeso per aver proposto una ricetta per cucinare il gatto. Le reazioni isteriche di alcuni telespettatori hanno poi, a cascata, stimolato l’intervento delle associazioni animaliste e poi del sottosegretario all’ambiente che non poteva rimanere a quel punto neutrale, scatenando il posizionamento dell’opinione pubblica. Molti dei telespettatori che hanno protestato per la ricetta a base di gatto hanno sicuramente pensato al gatto che hanno in casa al quale sono molto affezionati, anche se appariva chiaro che nessuno aveva intenzione di mangiarlo; alcune paure si sono poi concentrate sul fatto che qualche ragazzino potesse mettersi a provare a fare degli esperimenti su gatto del vicino. Moltissimi hanno anche preso le difese del presentatore dicendo di aver gradito l’intervento ma con atteggiamenti molto decisi e denigratori nei confronti degli altri, quasi che su questo terreno neutro, i distinguo e le mezze misure potessero saltare diventando, ancora una volta, un parafulmine delle nevrosi sociali.
Tutto ciò ha poi confermato la televisione come mezzo molto suggestivo dove certi argomenti, che possono essere presenti nella vita privata di tutti i giorni, vanno trattati con attenzione. La Rai, come si è detto, ha quindi sospeso il conduttore facendo mostra di avere controllo etico sui contenuti che propone. In realtà ha agito con decisione e fermezza su un argomento e su un fatto assolutamente marginale e dalle conseguenze culturali pressoché nulle. Nella stessa televisione di Stato sono proposti costantemente programmi che rasentano la pornografia o che sono politicamente scorretti ma su cui girano e gravitano tanti di quegli interessi che, anche se ci sono proteste, nessuno si azzarda a fare alcunché. Da valutare, inoltre, che la trasmissione è una gara fra cuochi ad ora di pranzo e ogni giorno sono manipolati pezzi di carne fresca di altri animali, e nessuno dice niente. Ma la solo evocata idea di una ricetta a base di gatto, e quindi non il suo consumo, fa inorridire e insorgere le masse.
Eppure la punizione inflitta al presentatore, colpevole di suscitare emulazione da parte dei giovani con effetti diseducativi, lascia davvero perplessi per due ragioni: si “esige” l’imposizione di una morale a chi deve ancora formare una propria etica; si nascondono le cose e la storia ai bambini ed ai giovani sottraendoli alla realtà, con conseguente rischio di disagi psicologici. Questa azione appare discutibile in sé e subdola in quanto mirata a garantire l’imposizione di un pensiero sotto la maschera della “protezione” per i più giovani.
In conclusione, possiamo dire che succede di tutto ed il contrario di tutto nel mondo di cui in parte ognuno di noi è fautore (fame nel mondo, mattanze di animali, sfruttamento di migranti ecc.) e poi si fa dell’idealismo su queste cose; così sembra avere più importanza un gatto randagio che un essere umano, e per molti lo è davvero: è più facile pulirsi la coscienza salvando un gattino che accogliere in casa un barbone disadattato. Non si vuol dire che si debba per forza aiutare gli altri, ma è la morale sociale che a certi livelli impone questo tipo di comportamenti come gratificanti e giusti e che noi dobbiamo soddisfare, con le nostre azioni.
Sembra valere di più l’idea che si ha sulla vita potenziale di un animale che di 100 uomini definiti clandestini, o di un embrione umano, perché la suggestione televisiva assieme alle nostre nevrosi ci fanno preoccupare ed agire sulle apparenze e non sui fatti. Tutto ciò è umano e legato ai nostri recettori sensoriali e all’elaborazione degli input cerebrali, tutto in funzione di soddisfare l’esigenza di riequilibrare a livello psicologico l’ingiustizia sociale che pervade la società e che ne determina anche la floridezza.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)