martedì 17 aprile 2012

Pubblicità in Campo Agroalimentare

La pubblicità serve per stordire e confondere il consumatore e le varie forme di auto regolamentazione e di controllo della stessa (anche di tipo Statale) non hanno la funzione di garantire il consumatore ma piuttosto di garantire che la produzione ed il consumo continuino senza intoppi.

Ecco una parte di testo che può far emergere questa situazione in maniera più chiara. Naturalmente nel libro il concetto viene espresso in maniera più ampia ed efficace con casi studio, ma già da questo si può dedurre molto. Buona lettura.

Andrea Meneghetti

<< Dopo questa breve premessa, possiamo occuparci del nostro tema specifico: il settore alimentare. Il problema etico della pubblicità, in questo settore, crea gli stessi dubbi che emergono negli altri settori, ma ha almeno altri due aspetti più caratterizzanti: le informazioni nascoste al consumatore ed i messaggi di salubrità, salutistici, nutrizionali.

- Le informazioni nascoste (o non comunicate) al consumatore.
Gli alimenti sono per l’essere umano indispensabili alla vita e quindi egli non può esimersi dal consumarli. Ma gli stessi alimenti, se consumati in quantità e qualità inadeguate (anche in relazione alle condizioni di salute del soggetto), possono portare a condizioni patologiche. Ciò determina una valenza particolare di questo bene che dovrebbe (anche se in pratica non lo è) essere considerato con particolare attenzione dalle forme di pubblicità.
Solitamente le legislazioni dei vari Stati impongono che una buona informazione debba essere riportata sulle confezioni e sugli imballaggi dei prodotti, ma nonostante ciò ci sono delle informazioni “sensibili” dell’alimento che non vengono riportate, perché non obbligatorie; certe volte vengono omesse per ignoranza stessa del produttore, ma nella maggior parte dei casi non vengono volontariamente valutate e dichiarate.
Per dati “sensibili” si intende principalmente il contenuto calorico del prodotto alimentare, le quantità consigliate di consumo, le categorie di consumatori che dovrebbero evitare il consumo di quell’alimento, altre componenti nutrizionali non caratterizzanti il prodotto ma presenti.
Infatti, oltre ai bambini, sui quali si scatenano di solito le maggiori discussioni etiche, esistono anche altre categorie di consumatori che avrebbero bisogno di attenzioni come diabetici, celiaci e anziani solo per citarne alcune.
Per la legge (che alle volte recepisce le ragioni etiche per una questione di pax sociale e non in funzione regolativa), molte di queste necessarie informazioni devono essere riportate sulle confezioni, ma altre informazioni ingredientistiche e nutrizionali non sono richieste, nonostante ci possa essere una pericolosità nel loro consumo, soprattutto se ripetuto.
Ad esempio, nelle pubblicità delle merendine al cioccolato non viene certo ricordato che questo ingrediente apporta sostanze nervine (eccitanti) al prodotto, che ai bambini non fanno bene. Non viene richiamato il fatto che un’alimentazione troppo ricca in zuccheri semplici non è adeguata. Ci sono addirittura merendine con estratto di caffè, e nella pubblicità televisiva del prodotto si vede il bambino mangiarne con voluttà.
Per non parlare di tutta una serie di prodotti, sempre correlati all’alimentazione infantile, che oltre ai due succitati componenti (sostanze nervine e zuccheri semplici) contengono delle sostanze conservanti (che sono tossiche se consumate in grande quantità), sostanze grasse di varia origine (ad esempio grassi trans) e tante altre sostanze che andrebbero conosciute approfonditamente per un consumo consapevole.
Il punto etico sorge perché il bambino è un delicato organismo in crescita e quindi andrebbe salvaguardato nella sua alimentazione anche partendo dall’aspetto pubblicitario che influenza non poco la sua giovane mente. Infatti i bambini, a seguito della visione del messaggio pubblicitario, richiederanno insistentemente il prodotto ai genitori, anche se questi non lo ritengono adeguato; la pubblicità incide inoltre sullo stile alimentare: uno  studio indica come sempre meno le abitudini alimentari del bambino siano influenzate dai genitori ed invece seguano gli input esterni (Antonella Sparvoli, Corriere della Sera, 17 aprile 2011).
Per quanto riguarda altre categorie di consumatori, hanno preso piede alcuni nuovi criteri di etichettatura, richiesti da più parti, come ad esempio le etichettature “gluten free” per i celiaci e le dichiarazioni che negli stabilimenti si usano ingredienti che possono scatenare shock allergici (come i semi di frutta in guscio, crostacei, componenti della soia ecc.), ma per le patologie più generiche non si è ancora riusciti a trovare una risposta soddisfacente, anche perché la maggior parte dei prodotti si ritroverebbe poco adatta alla maggior parte della popolazione; a tal proposito basta pensare alle varie forme di diabete e al sovrappeso.

- Messaggi di salubrità, salutistici, nutrizionali.
Oltre alle informazioni che sono omesse, più o meno volontariamente, ma che se fossero richiamate sarebbero solo a favore del consumatore, ci sono, nelle pubblicità, degli espliciti richiami di tipo salutistico-nutrizionale che possono essere considerati non etici per uno o più dei seguenti motivi:
non corrispondono al vero: danno un messaggio del tutto fantasioso o illusorio che porta il consumatore a fare confusione (ad esempio dichiarare che un alimento è “light” gli fa credere che possa far dimagrire o comunque non ingrassare);
declamano caratteristiche che appartengono al prodotto per la sua stessa definizione: è considerato scorretto richiamare queste caratteristiche a scopo pubblicitario (ad esempio i “claim” che ascrivono a prodotti derivanti dai cereali «un carico di energia» che, essendo per lo più costituiti da carboidrati, per definizione apportano energia; oppure il “claim” «ricco in vitamina A» se sono prodotti contenenti carote);
non sono supportate da reali evidenze scientifiche (ad esempio prodotti caseari con particolari funzioni anti-colesterolo, dietetiche o digestive);
utilizzano termini scientifici o medici che disorientano deliberatamente il consumatore;
utilizzano termini come “salute”, “naturale” ecc. per far nascere nel consumatore particolari suggestioni che in realtà sono generiche e non sono necessariamente legate al prodotto (ad esempio il “claim” «acqua della salute»).
In molti paesi, in questo campo vige una limitazione nell’utilizzo di termini che possono confondere il consumatore; il problema è trovare una regolamentazione efficace ed un ente autonomo che sia in grado di far rispettare il regolamento.

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In campo alimentare, per promuovere un prodotto si gioca sul riflesso che il consumatore ha nei confronti dei consumi nella socialità (famiglia, amici), del piacere edonistico, dello stile di vita e della ricerca della salute.
A proposito di quest’ultimo punto: «L’idea del cibo come veicolo di salute è sostenuta da un’enorme produzione editoriale con taglio divulgativo. Molte campagne pubblicitarie hanno sfruttato la nuova tendenza valorizzando attributi presenti da tempo nei prodotti.[...] Talvolta un ingrediente è enfatizzato fino ad assumere un valore centrale, sfruttando nomi di piante e sostanze vegetali che evocano di per sé “effetti miracolosi” (aloe, gingko biloba, iperico). […] La veridicità delle promesse degli alimenti salutistici è incerta. Per innalzare lo standard della corretta informazione e delle veridicità delle promesse comunicate, un regolamento europeo vieta di attribuire ai prodotti alimentari caratteristiche nutrizionali e salutistiche non scientificamente provate; inoltre le qualità attribuite agli alimenti debbono essere preventivamente approvate dall’EFSA, l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, e dall’apposita Commissione europea.[...] Il mercato dell’health & wellness è florido, anche se non sono chiare le premesse scientifiche su cui si regge l’offerta. Le caratteristiche dei prodotti non sono comunicate con chiarezza; intanto le imprese cercano relazioni con istituti di ricerca e università per acquisire autorevolezza nel proporre prodotti e risultati» (Franchi, 2009:90-91).

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La pubblicità può essere considerata anche una raffinata forma di violenza quando viene usata per creare disagio e “costringe” il soggetto ad agire in un determinato modo per alleviare le proprie sofferenze psicologiche (specie se indotte dalla pubblicità stessa). Il dubbio etico sorge proprio se questa strisciante violenza è indirizzata alle menti giovani, non pronte per affrontare tutto e per discernere. I governi farebbero quindi anche bene, in via teorica, a stabilire dei limiti per salvaguardare le fasce più deboli della popolazione, per inciso bambini ed anziani, ma non è un indirizzo facile da individuare in via pratica.
Per trovare una conclusione a questa disamina, si potrebbe dire che c’è una sorta di autoregolamentazione implicita nel settore pubblicitario, tra chi tira da una parte (venditori e pubblicitari) e chi tira dall’altra cioè associazioni dei consumatori ed istituzioni religiose (queste ultime interessate perché competono con la pubblicità per lo spazio cerebrale dei consumatori). Infine ci sono le autorità pubbliche e dello Stato che dovrebbero fare da mediatori tra le due istanze e che quindi non fanno necessariamente il bene del cittadino, ma devono trovare un accordo tra le varie esigenze, sia di produzione e di ricchezza che di salute e pace sociale.>>



(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

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