venerdì 13 aprile 2012

Spreco alimentare e perdita fisiologica 2/4

<< Caso studio: lo spreco del pane a Milano e il surplus produttivo

Tempo fa, all’inizio del 2010, sul Corriere della Sera, si è acceso un dibattito sul fatto che ogni giorno a Milano vengono gettati via 180 quintali di pane (Rita Querzè, Corriere della Sera, 03 gennaio 2010).
Introdurre la polemica sul pane a Milano come esempio è interessante per il fatto che ci sono situazioni più o meno cicliche (come gli scossoni di tipo economico) che acuiscono la percezione dello spreco.
Gli alimenti gettati e non riutilizzati sono di moltissimi tipi, però l’attenzione si è concentrata sul pane che effettivamente rappresenta un alimento particolare, per più aspetti. Prima di tutto, anche se forse non è la ragione più importante, il pane è un elemento della sacralità religiosa cattolica (ostia) che molto probabilmente diventa così importante perché, nei periodi della formazione della liturgia, il pane rappresentava un bene fondamentale per la vita. Il pane anche in tempi più recenti ha rappresentato una delle forme più importanti di sostentamento e quindi viene rappresentato neuralmente e percettivamente in un modo particolare.
Il pane è dunque un emblema dell’alimentazione anche se, in realtà, non è più così importante sia per le quantità consumate giornalmente, sia per la quota di reddito spesa per acquistarlo nei nostri giorni.
Attorno a questo alimento, in Italia si è stimolata una serie di riflessioni e dibattiti su come poter ridistribuire le eccedenze che spesso diventano un rifiuto. E proprio per la sua natura il pane non consumato, e quindi gettato, viene percepito come sprecato, quasi un delitto per alcuni, soprattutto per le generazioni che hanno vissuto i periodi delle guerre mondali e quelli successivi, molto difficili dal punto di vista economico. Interessante che questo tipo di percezione, sul pane e sul cibo in generale, si riscontra anche nelle persone che sono migrate da paesi piuttosto poveri o dove la ricerca del cibo per il proprio sostentamento è una battaglia quotidiana. Appare quindi chiara la formazione di una struttura neuronale che implica una percezione particolare derivante da un’esperienza pregressa e quindi impone un’abitudine comportamentale.

Per proseguire nell’analisi ci sono ora da fare altre considerazioni:
1) Le ditte che gettano il pane (soprattutto panifici e supermercati) per un surplus produttivo sono comunque in attivo economico. Questo surplus è una conseguenza delle economie di scala produttiva, ma nasce anche per esigenze di presentazione del prodotto: esposizione di varietà e quantità invogliano il consumatore a comprare mostrando abbondanza nella possibilità di scelta;
2) Ci sono degli alimenti, tra quelli eliminati, che “costano di più” rispetto al pane in termini di spreco. Questo è interessante perché lo spreco non viene percepito nella stessa maniera tra i diversi tipi di prodotto alimentare; in altri termini, se viene gettato, il pane fa più clamore di altri tipi di prodotto. Questa situazione giustifica, tra l’altro, l’impianto teorico di questo libro basato sulla percezione degli alimenti e dell’etica che ne deriva sugli stessi. Ad esempio, per prodotti che fanno meno clamore se vengono gettati, si possono richiamare le carni (che oltre ad aver consumato sostanze nutritive ed acqua per la loro produzione derivano anche dall’uccisione dell’animale) o i prodotti confezionati con imballaggi come i latticini freschi (un esempio è lo yogurt in vasetto di plastica che, oltre a comportare problematiche produttive simili alla carne, ha anche un imballaggio che deve essere eliminato contestualmente).
3) Nessuno vuole avere il prodotto pane per trasformarlo in qualcos’altro. Il prodotto, per la sua eterogeneità, non può essere utilizzato per altre produzioni come la mangimistica ma, nel contempo, il costo della manodopera per il recupero dello stesso supera di molto il possibile ricavo del bene derivato. Una delle uniche forme di riciclo, tra l’altro parziale, è la donazione a enti di solidarietà sociale.
Fatte queste tre considerazioni, non rimane che ricordare come i filosofi e pensatori del nostro tempo ci riempiano di considerazioni pseudoscientifiche, ma dallo sfondo morale, sul fatto che il pane non deve essere sprecato, stravolgendo la realtà ma gratificando l’esigenza di auto-mortificazione per un comportamento che ci appartiene e che in questo modo si cerca di espiare. Questi pensieri, diffusi dai media, portano tutti verso quella che potremmo definire la “negazione del surplus produttivo” e questi interventi non riguardano, naturalmente, solo il pane.
La negazione del surplus produttivo non è un atteggiamento vitale ed è la conferma che viviamo, nel mondo sviluppato, in un momento di decadenza nel quale non riusciamo più a capire molte delle dinamiche che hanno portato al benessere economico in cui viviamo o abbiamo vissuto.
È chiaro che la maggior parte di chi spreca il cibo non ha conoscenza della fatica e delle risorse che si hanno per produrlo. Ad esempio la maggior parte delle giovani generazioni che alle volte ignorano addirittura l’origine degli alimenti. Ma il surplus produttivo non può essere negato o combattuto ideologicamente (come ad esempio può esserlo la richiesta di vietare la distruzione delle derrate in eccesso che avviene per il mantenimento dei prezzi di mercato, o dichiarare che gettare il cibo è sbagliato o persino fuorilegge); solo chi ha un surplus o le popolazioni che possono produrlo possono destinare parte della popolazione a fare lavori più raffinati che producono gratificazioni sia materiali che intellettive e aumentano gli spazi e le dimensioni della vita.
Naturalmente non possiamo negare che, nel contempo, le maggiori possibilità di vita di alcuni comportano lo sfruttamento di molti altri. Ricordiamo però che il surplus produttivo, derivato dalla scoperta delle Americhe, accelerò la rivoluzione industriale che investì il vecchio continente. La maggiore quantità prodotta a seguito dell’introduzione di nuove colture (patate, mais, pomodori), unita a quella portata dall'America, determinò una crescita dell’offerta di cibo tale da richiedere maggiori infrastrutture e migliori tecnologie di lavorazione da un lato, ma anche la destinazione della forza-lavoro verso la soddisfazione di altre esigenze che nascevano dalla maggiore disponibilità di tempo di fasce di popolazione sempre maggiori. Dalla maggiore disponibilità energetica e nutrizionale sono derivati lo sviluppo di capacità intellettive e la scoperta di nuove soluzioni tecniche.
Senza il surplus produttivo della nostra società, nemmeno queste riflessioni sarebbero nate. Non ci sarebbe stata la possibilità di investire tempo, energie, fatiche intellettive per la creazione di una prospettiva emancipativa, non schierata e caratterizzata dalle facili conclusioni e argomentazioni del flusso informativo di massa. >>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

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