domenica 1 luglio 2012

Impatto dell’allevamento sull’ambiente

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Enti quali la FAO, riviste (ad esempio il WWM - World Watch Magazine) e giornali come il Corriere della Sera in Italia, nonché associazioni di cardiologia e nutrizione hanno promosso una campagna di comunicazione sull’impatto che gli allevamenti di bestiame da carne per alimentazione umana esercitano sull’ambiente.
Il dato scientifico rilevato nel dossier 2006 della FAO attesta che il settore della carne causa il 18% delle emissioni totali di gas serra dovute ad attività umane.; il WWM, con un articolo di Goodland e Anhang (Novembre/Dicembre 2009, Volume 22, n.6) porta le emissioni di CO2 da parte del bestiame e dei suoi sottoprodotti fino al 51% delle emissioni di gas serra totali. Lo studio ha sollevato un caso etico tra i lettori sia dal punto di vista ambientale che salutistico, anche perché consumare molta carne presenta controindicazioni nutrizionali che vengono pure riportate: sviluppo di malattie degenerative croniche legate al consumo di animali da allevamento (patologie coronariche, cancro, diabete, ipertensione…).
Queste campagne di comunicazione trasmettono il messaggio che bisogna cambiare la dieta della popolazione perché così si salvaguarda la salute e nel contempo l’ambiente. Si può verificare, quindi, un cambiamento dei comportamenti alimentari in una parte della popolazione, a prescindere da un effetto reale sulle condizioni dell’ambiente.
Il soggetto che modifica la sua alimentazione prova sollievo ad agire in tale maniera, sia dal punto di vista psicologico, perché sente di fare una cosa “giusta”, che da quello fisiologico, per la maggiore attenzione ai componenti nutrizionali della sua nuova dieta.
Quello che si vuole sottolineare è che questo cambiamento comportamentale è conseguente ad un cambiamento dell’etica della gente, in relazione a cosa considera giusto o sbagliato; di fondamentale importanza, però, è rilevare che la soluzione trovata per “scaricare” il problema etico a livello psicologico pospone o cerca di coprire il fatto che c’è un impatto ambientale dell’uomo per il solo fatto di esistere, anche se consuma solo prodotti di origine vegetale.
Bisogna sottolineare quella che è stata la capacità adattiva dell’uomo come essere vivente. Una volta, infatti,  questo modello di sviluppo garantiva l’equilibrio e nessuno si faceva scrupoli o domande; oggi, per una esigenza nuova (anche evolutiva), questi nuovi movimenti vengono promossi e producono degli effetti sia a livello personale che generale. Si tratta di una evoluzione legata a bisogni nuovi, e tutto parte da una nuova forma del nostro percepire che si traduce in azioni diverse: niente altro che un rimodellamento delle nostre connessioni neuronali.

Dagli studi citati emerge che l’uomo e le sue produzioni alimentari hanno un fortissimo impatto ambientale e per ridurlo sembrerebbe sufficiente dismettere un certo tipo di sviluppo e di pratiche agricole.
In realtà non si può non considerare che sul piatto ci sono anche altri interessi che tirano da tutt’altra parte, come gli interessi degli allevatori, dei contadini e delle imprese agricole, delle industrie alimentari ecc. Attorno a queste realtà ci sono famiglie che vivono di queste attività e certo non vorranno rinunciare ai loro redditi.
Ma c’è anche da considerare i consumatori più poveri dal punto di vista economico, che creano una domanda di prodotti a basso costo e non possono permettersi la qualità e (insieme) il basso impatto ambientale delle loro derrate. Per non parlare di tutte le popolazioni dei paesi in via di sviluppo che spingono per avere più terre da coltivare, più cibo e più servizi; a questi ultimi si può raccontare ciò che si vuole, ma restano un fenomeno inarrestabile e molto critico per i futuri scenari del mondo. Ognuno, quindi, tira l’acqua al suo mulino sul presente che deve vivere, e ciò comporta e comporterà degli inevitabili scontri.
Le proposte di rinunciare agli armenti come fonte alimentare proteica lascia il tempo che trova perché ci sono tutta una serie di prodotti legati al loro allevamento ai quali è difficile rinunciare: latte, formaggi e derivati, uova, cuoio, ossa e pellami, lana e filati, piume.
Se poi, invece di allevare vacche per la carne, dessimo gli stessi spazi all’agricoltura per l’alimentazione umana, il problema dell’inquinamento non cambierebbe. Infatti se rinunciassimo alle vacche, la stessa CO2 sarebbe prodotta dagli esseri umani sfamati con quei prodotti, perché i numeri sono quelli. Non ci si può giocare poi molto. Senza tralasciare il discorso della sostenibilità economica, che in alcuni casi appare possibile, ma in altri assolutamente no (ad esempio produrre mais in Argentina per portarlo in India a popolazioni che non possono pagare il prodotto non ha senso in termini economici e nessun senso biologico).
Il punto è che per portare in crescita l’animale (per le varie funzioni vitali, anche il solo mantenimento della temperatura corporea) c’è un consumo energetico (metabolismo omeostatico). Per questo la resa di conversione Amidi/Proteine è bassa.
Sicuramente una analisi (e revisione?) delle modalità di allevamento animale e una valutazione del loro impatto ambientale sono da individuare. Va ad esempio considerata l’esperienza della “mucca pazza” che, da emergenza sanitaria come si è presentata, ha dato il via a modifiche e limiti all’allevamento animale rivelatisi giovevoli sotto diversi aspetti.
Il nocciolo etico, interesse di questo libro, sta nel capire come si sceglie se destinare o meno (e in che quantità) cereali e altre produzioni (soia ad esempio) all’allevamento di animali per carne oppure se destinarle a sfamare gli uomini direttamente.
Fatte queste valutazioni basilari, le scelte sul tipo di allevamenti (biologico, tradizionale, pascolo libero ecc.) e sui siti dove farli avranno ulteriori risvolti etici.
Guardando il problema da un’altra prospettiva, al posto del consumo di carne si stanno cercando di promuovere fonti proteiche alternative per lo sviluppo della popolazione mondiale: la soia per fare il Tofu e il Miso; il glutine di frumento tenero, farro e kamut per fare il Seitan; si stanno inoltre facendo ricerche per ricavare, tramite lieviti e funghi, da carboidrati, cellulose e altri substrati vegetali, alimenti ad alto contenuto proteico che teoricamente vorrebbero sostituire il prodotto animale insufficiente, inquinante ed eticamente controverso. C’è solo un’obiezione a questo: se, come abbiamo visto, anche i bovini sono geneticamente strutturati per mangiare erba e non granaglie, anche il nostro organismo, ma soprattutto il nostro gusto è geneticamente determinato per preferire la carne, sia come struttura e consistenza (texture) che come sapori ed odori (flavour).>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

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