giovedì 12 luglio 2012

Critica alla Food Policy 2/2

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Questo bias etico si esprime anche nella ricerca di una formula magica che risolva, completamente e definitivamente, il problema alimentare e i dubbi etici che si porta dietro. Nel seguente passaggio si realizza almeno che si riconosce una certa difficoltà per individuarla: «Non c’è un singolo fattore che determina la povertà alimentare e le ingiustizie; nessuna “pallottola magica” può mutarli» (Lang et al., 2009:265). Ma il punto da analizzare è perché si dovrebbero trasformare questi fattori, perché cambiare un sistema che va in una certa direzione da milioni di anni. La presenza di un bias etico è evidente. Si imposta una analisi distorta della realtà in cui si vive e si crede di avere le potenzialità e la possibilità statistica di creare una situazione ideale, o meglio, idealizzata.
E ancora: «La formula favorita [per risolvere la crisi alimentare globale] fu molto ripetuta dai differenti interessi: liberalizzazione del mercato; l’ingiustizia delle regole del mercato; il bisogno dei cibi GM [geneticamente modificati] e altre soluzioni tecnologiche; il caso delle aziende agricole di piccola scala; il caso pro e contro i biocarburanti; il ruolo della speculazione; e più. […] Ci sono una miriade di queste opzioni: intensivo o biologico? Cibi funzionali o cambio delle diete? Biocarburanti o cibo?» (Lang et al., 2009:45). Il loro numero ci svela ancora una volta che non c’è una soluzione, anche perché sarebbe da chiedersi che cosa dovremmo mai risolvere; il mondo biologico ha dei limiti che non possono essere superati e vanno accettati.
Sicuramente ci sarà l’attuazione, anche parziale, di alcune di queste opzioni che, come unica conseguenza probabile, procrastineranno il momento del collasso del pianeta, riorganizzeranno la tensione competitiva, sposteranno il problema su altri fattori.
Dato che il collasso non avverrà in tempi brevi, è giusto che queste food policies agiscano per dissimulare e rendere meno pesante la realtà; bisogna capire però che, se prese troppo sul serio ed applicate su larga scala come una panacea, possono creare dei gravi scompensi dal punto di vista produttivo, oltre che creare limitazioni all’espressione dei singoli e delle loro libertà, con conseguenza ultima la riduzione dell’evoluzione dell’uomo.
Chi deve, quindi, gestire sia le crisi alimentari che le utopie dei cittadini, sono i governi: «Nonostante le ampie connessioni, pochi governi sposano apertamente il bisogno di ridurre le ineguaglianze della distribuzione dei redditi, per paura di mandare segnali antimercato» (Lang et al., 2009:270).
Forse non è solo questa paura il motivo per cui non si riducono le ineguaglianze. Infatti, è proprio la struttura delle ineguaglianze che crea la ricchezza. Per spiegare questa affermazione, possiamo aiutarci con alcuni esempi concreti, il primo mutuato dalla chimica: le differenze di concentrazione di due soluzioni danno  un certo potenziale chimico che può essere sfruttato dall’uomo (vedi le batterie delle auto e dei congegni elettronici); ma anche un composto più o meno concentrato o raffinato consente l’efficacia di molte reazioni utili sia in campo industriale che farmaceutico. In campo biologico, la possibilità della compartimentazione e del mantenimento di disuguaglianze e differenze nei vari mezzi e liquidi biologici (membrane cellulari) ha consentito lo sviluppo della vita sulla terra. Dal punto di vista architettonico, le diseguaglianze sociali hanno garantito la possibilità di creare i più bei monumenti sia per quanto riguarda l’aspetto ingegneristico (ad esempio la Reggia di Versailles) che per l’aspetto artistico (avere la possibilità di pagare un artista, o la possibilità di una società di avere al suo interno degli artisti, comporta delle diseguaglianze nella distribuzione economica ma anche nella distribuzione delle competenze da svolgere nella stessa).
Dunque le diseguaglianze sociali sono state e sono sempre presenti e funzionali alla ricchezza ed il compito dei Governi, oltre a mantenere il conflitto ad un livello accettabile, è anche quello di dissimulare le differenze sociali e far credere che ci sia una generale possibilità di scelta da parte del consumatore:
«La linea programmatica pubblica, di certo, si interessa degli aspetti comportamentali e del consumatore riguardo il cibo, e gli stati raccolgono i dati delle spese e dei consumi, ma di solito questo è fatto in maniera limitata e non nel modo famelico con cui lo fa il settore economico. I ministri diranno che la scelta alimentare è concessa, un pilastro sacrosanto della politica alimentare; il diritto individuale alla scelta alimentare è sommo. Nessun pubblicitario, comunque, prende questa posizione semplicistica; i distributori e l’intera industria interessata vogliono sapere che cosa determina la scelta, quanto ampia è e se ogni persona la applica alla stessa maniera, come e quando il comportamento cambia. […] Ignorare questa dimensione [sociale del cibo] vuole dire distorcere la realtà e anche restringere il potenziale dello sviluppo delle linee programmatiche» (Lang et al., 2009:224).
Ancora una volta dobbiamo sottolineare che il cibo è un prodotto sul quale i vari operatori della catena vogliono (e devono) guadagnare. La posizione dello Stato e delle sue linee programmatiche, quindi, non ha la funzione di difendere il consumatore, ma di gestire il fenomeno, mantenendo accettabile il rapporto tra sfruttatore e sfruttato. Le varie dichiarazioni di sovranità alimentare e di diritti al cibo da parte dei responsabili politici hanno la funzione di ridurre le tensioni e dare un contentino a chi realizza di non avere possibilità di scelta. Proporre una visione edulcorata della realtà consente di controllare la situazione, di orientare i consumatori verso scelte negative per la loro salute o limitanti la loro libertà personale, ma funzionali al sistema economico.
Contemporaneamente società e Stati mettono in atto attività che dovrebbero servire a risolvere i vari problemi della catena alimentare, compreso il problema della fame; «Molte società hanno un miscuglio di misure che mancano di coesione» nota Lang. E infatti, esse non servono a risolvere nulla, ma calmano gli animi mettendo una pezza di volta in volta, dove serve, facendo credere che si stia facendo qualcosa.
«Sarebbe inappropriato lasciare l’esposizione sul WFP [World Food Programme] e il suo ruolo di aiuto alimentare nelle crisi. Dietro un sipario di sentimento umanitario e apparente successo  nelle crisi [umanitarie] può risiedere qualche dubbiosa pratica e meno altruistiche motivazioni. L’aiuto alimentare è stato criticato per il fatto di essere corrotto, troppo legato agli interessi occidentali, collegato agli interessi dell’Agenzia, dominato da élite locali e che manca di raggiungere coloro che maggiormente ne necessiterebbero. […] I critici dichiarano che l’aiuto è diventato routinario, un’industria e non una soluzione» (Lang et al., 2009:274).
Il WFP è uno strumento che da un lato serve per placare gli oppressi e dall’altro riesce a schermare i sensi di colpa della società opulenta, è quindi strettamente funzionale alla struttura sociale mondiale e di conseguenza locale quando agisce in determinati modi. Ne risulta un chiaro esempio di come deve funzionare la politica di aiuto alimentare inserita nella più ampia programmazione pubblica. Non deve quindi risolvere alla base problemi che non potranno mai essere risolti, ma garantire la prosperità delle società e consentire che le differenze sociali siano mantenute ad un giusto grado.
Arriva tuttavia un momento in cui è comunque necessario trovare nuove forme, sempre più raffinate, di controllo sociale; si accorgono in troppi che le azioni messe in atto non funzionano davvero, come è stato dichiarato in relazione al WFP da un autore che dovrebbe essere tra i promotori di queste azioni. A seguito di maggiori informazioni fornite da parte dei media, di modifiche dell’empatia nelle società e quindi della strutturazione di nuove percezioni, anche la food policy deve modificarsi per funzionare: «[…] ci sono episodi di cambiamento delle linee programmatiche che stanno accadendo, che segnalano la crescita di consapevolezza delle prerogative della salute pubblica ecologica […] Comunque, questi processi di cambiamento nella food policy sono complessi e hanno ancora molta strada da fare» (Lang et al., 2009:96). Quest’ultima affermazione è molto interessante perché pone già le basi per giustificare, nel futuro, il fallimento nei risultati ricercati.
Infatti per definizione la food policy si pone obiettivi utopici, che devono comunque essere spiegati anche nei loro fallimenti “congeniti”, altrimenti verrebbe meno l’efficacia delle politiche; ne deriva che le sue modifiche sono legate all’esigenza di adattare le politiche all’evolvere della società. Dunque, nell’analisi di questo tipo di fenomeni, c’è sempre da valutare se l’obiettivo dichiarato sia quello realmente ricercato e se i presupposti del ragionamento siano corretti.
Il seguente passaggio esprime con una certa chiarezza quali sono le problematiche che si devono gestire in questo periodo storico: «La sfida che noi affrontiamo ora è come incoraggiare – velocemente ma sensibilmente – la produzione, distribuzione e il consumo di un bene migliorante la salute e una dieta basata su principi ambientalisti» (Lang et al., 2009:3). Questo è un obiettivo utopico e fasullo, creato per illudere che ci possa essere una soluzione alla lenta distruzione del pianeta e delle sue risorse, e che ci sia un’attenzione per i bisogni del consumatore. Ed infatti, qualche pagina dopo, troviamo: «La prova, per le food policies, è se possano fornire un sistema alimentare sano, sicuro, salubre, sostenibile, produttivo e giusto». È chiaro che è impossibile, ma prevale l’esigenza sociale e individuale di credere che lo sia, per alleviare i dubbi etici conseguenti alla percezione della violenza e della sofferenza insite nel processo produttivo e delle ingiustizie e devastazioni che ne sono l’effetto.
Tra l’altro, gli obiettivi ideali si scontrano con le direttive che ad esempio arrivano da chi indica linee dietetiche che mal si sposano con l’eccessivo popolamento del pianeta: «La scienza della nutrizione ora manda segnali complessi ai creatori delle politiche, ed un dubbio potrebbe essere espresso come se questa più sofisticata comprensione fosse un esempio del problema della cacofonia della linea programmatica, dove voci in concorrenza, ognuna con buona evidenza, fallisce nel fornire una coerente politica» (Lang et al., 2009:101-102). Forse, la mancata coerenza della food policy è da ricercare negli errati presupposti di partenza, o meglio in presupposti di convenienza che servono solo a distogliere l’attenzione da una realtà difficilmente accettabile. È evidente che chi auspica determinati livelli nutrizionali si scontra con chi richiede un sistema produttivo sostenibile, solo per fare un esempio; ne deriva che la richiesta di un’azione varia tra i diversi attori perché ognuno ha una visione parziale e settoriale.
«Un enigma (quantità versus qualità; produzione di cibo versus il suo impatto ambientale) corre attraverso la moderna food policy» (Lang et al.. 2009:49).
Se i presupposti del ragionamento continueranno ad essere errati, è chiaro che di questi enigmi ne troveremo lungo tutta la catena agroalimentare. La loro individuazione e la ricerca di potenziali soluzioni agli stessi riempirà le giornate di coloro che, già ben nutriti, non avranno interesse ad affrontare in maniera scientifica tutti questi argomenti. Così otterranno di distogliere l’attenzione dai veri punti cruciali del ragionamento, permettendo il mantenimento dello status quo delle cose. Nel frattempo coloro che chiedevano più considerazione perché stavano morendo di fame, invecchieranno e moriranno o vedranno l’annichilimento delle loro istanze, la forza delle loro richieste sempre più debole. Ma coloro che vedono in questi “filosofi” i punti di riferimento delle loro richieste etiche saranno rasserenati e continueranno a vivere le loro vite impattanti sul sistema ecologico pulendosi la coscienza con un’offerta di beneficenza a Natale.
Se questi “filosofi” si limitassero alla loro funzione sociale sarebbe importante, invece eccedono nella loro ricerca di soluzioni con conseguenze anche deleterie. «L’argomento qui analizzato è che la moderna creazione di politiche affronta una complessità considerevole per quel che riguarda come il cibo dovrebbe essere ed è coltivato, processato, distribuito e consumato» (Lang et al., 2009:8), ma questo ricercare come dovrebbero essere fatte le cose e cercare anche di realizzare un processo produttivo, eticamente mediato, è molto rischioso. Si vogliono trovare realmente delle soluzioni (che non ci sono) al problema alimentare ma soprattutto si vuole realmente applicarle: «Questo [criterio di salute ecologica pubblica] richiede di aiutare i consumatori a condurre e mangiare all’interno di una nuova cultura etica alimentare, dove l’etica e la moralità si fondono con la giustizia sociale. Di più, questo richiede un approccio interdisciplinare, con indicatori sia sociali che biofisici» (Lang et al., 2009:51).
È evidente l’approccio sbagliato e distorto all’etica che peraltro, quando applicato, da subito creerebbe una diatriba sulle fasce di popolazione alle quali imporre eventuali restrizioni: solo le fasce povere o anche i ricchi? L’introduzione di limiti crea ingiustizie e restrizioni alle libertà personali oltre quelle esistenti, anche se più o meno percepite o diversamente rivendicate. Eppure, nel momento in cui si voglia mantenere un sistema “giusto” (artefatto), sarà necessario esercitare pressioni psicologiche o coercitive, con dispendio di energie; oppure ci sarà la creazione di altre violenze fisiche. La conseguenza è di andarsi a cacciare in un vicolo cieco, per il fatto che non si è accettato il fatto che la creazione ed il reperimento del cibo sono tutto tranne che “giusti” per come l’intende la nostra etica e quindi sarebbe meglio che queste “food policies” si limitassero dichiaratamente a far credere (come la maggior parte delle volte accade), a chi ne ha bisogno, che si stia facendo qualcosa.
«Almeno fino alla fine del ventesimo secolo, c’era sufficienza di offerta. Ma la continua esistenza di malnutrizione, carestie e morti premature dovute alle carenze [alimentari] suggerisce che produrre a sufficienza non è la stessa linea programmatica del distribuirlo equamente» (Lang et al., 2009:46). Qui il punto da sottolineare è che non è detto che la produzione debba essere distribuita e soprattutto in modo equo.
«Nel 1970 e 1980, iniziammo anche a riconoscere il fatto che la moderna food policy è solo in parte a proposito del se e come la produzione di cibo può essere aumentata; l’altra parte è a proposito di cosa è prodotto e consumato e quanto equamente» (Lang et al., 2009:35). Ancora una volta: che significa “equamente”? Quando un prodotto può essere considerato equo? E lo è in modo assoluto o lo si deve considerare solo da un punto di vista dell’etica?
La giustizia sociale è un artificio etico, non è presente in natura. Serve all’uomo per sentirsi in equilibrio con se stesso. Ed infatti non è espresso da tutte le popolazioni e da ogni soggetto nella stessa maniera e agli stessi livelli.
Analogamente, appare un artificio il concetto di “democrazia alimentare”, «termine che si riferisce al lungo processo di battaglia per il miglioramento nel cibo per tutti, non i pochi, che incorpora il principio della cittadinanza alimentare con i diritti e le responsabilità che questo porta» (Lang et al., 2009:51).
Colpisce ancora che siano gli Anglosassoni a chiedere giustizia, rispetto e libertà, col loro pesante bagaglio storico. Ma questa non vuole essere una sciocca polemica anticolonialistica; infatti, se si riuscisse a sciogliere questo controsenso, si potrebbe forse individuare una raffinata ed efficace scuola di potere che tramite etica, uso della forza e creazione di illusioni mediatiche, è riuscita a governare il mondo. Un aspetto interessante che si può individuare è che spesso le popolazioni anglofone, a differenza di quelle latine, “chiedono scusa” e fanno pubblica ammenda dei danni che hanno commesso nel loro passato (danni comunque leciti nel senso che sono stati fonte di prosperità). C’è sempre un doppio binario tra etica personale e morale sociale, e quest’ultima viene costantemente disattesa per raggiungere gli interessi personali finché non si viene scoperti: in quel momento ci sarà la presentazione delle scuse e la pubblica gogna (le famose lacrime di coccodrillo). E, come si è visto, nel contempo il meccanismo della beneficenza, molto ben strutturato in quelle società, verrà a sostegno delle coscienze giustificando la ricchezza economica ottenuta a discapito di altri.
Un altro punto vale la pena d’essere ulteriormente trattato: l’impossibilità di risolvere dei problemi per forze di causa maggiore facendo credere, invece, di avere trovato una soluzione. Anche nella food policy si cercano delle soluzioni a situazioni immutabili (come la fine della fame nel mondo) con la costruzione di castelli ideologici fittizi, con presupposti assurdi analizzati e rianalizzati per scaricare l’ansia e l’incertezza che nasce dal dubbio etico. Si profilano così soluzioni illusorie ma bellissime (come appunto la fine della fame del mondo) e ci si attiva, senza molta convinzione, per poter dire di averci provato. Dopo qualche anno si dichiara che a causa di condizioni avverse, non si è riusciti a portare a termine il progetto; così intanto sono passati 10-20 anni, le coscienze sono a posto, le cose sono rimaste invariate e prospere per coloro che avevano il potere, e alcuni di quelli che si lamentavano non ci sono più.
In conclusione, le food policies offrono soluzioni temporanee, che hanno anche degli effetti nel breve termine ma non risolvono il problema dell’iniquità della distribuzione delle risorse, problema ineliminabile perché fisiologico della società e dell’umanità; si traducono così in venditori di sogni.>>


(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

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