lunedì 9 luglio 2012

Critica alla Food Policy 1/2

<< Caso studio: critica alla Food Policy

Nei Paesi di lingua anglosassone e precisamente in Gran Bretagna, esiste un movimento culturale che possiamo ricondurre al termine di Food Policy, che ha lo scopo fondamentale di analizzare, dal punto di vista filosofico, il sistema alimentare mondiale e di considerare e cercare di risolvere le varie tensioni presenti a livello di produzione, distribuzione e consumo del cibo. Il più importante esponente di questo movimento è Tim Lang della City University of London.
Nel suo recente libro, che prenderemo a riferimento per questo paragrafo, la food policy viene definita come «lo studio delle linee programmatiche alimentari […] La creazione delle politiche influenza chi mangia cosa, quando e come; e se le persone (e gli animali) mangiano e con quali conseguenze. L’ambito di ricerca della food policy si estende da come il cibo è prodotto e coltivato a come è processato, distribuito e consumato; dalle strutture che modellano la fornitura di cibo, a quelle che determinano salute e ambiente; dalle scienze e processi che liberano i potenziali alimentari, alla amministrazione formale e i gruppi di potere che cercano di controllarla; dall’impatto che la dinamica sistemica alimentare ha sulla società, al modo in cui le sue richieste sono concesse nella creazione delle politiche stesse. L’importanza e lo scopo nello studio della food policy, quindi, è di aiutare a dipanare le complesse relazioni tra cibo e questi altri domini di esistenza con lo scopo di rendere ciò che è altrimenti implicito (o nascosto dietro le quinte) più esplicito, aperto e democraticamente spiegabile» (Lang et al., 2009:21-22).
Ora, se la definizione scientifica dell’ambito operativo può essere condivisa – perché lo studio delle dinamiche alimentari serve alla società – gli scopi dichiarati soffrono di una prospettiva utopistica oltre che insostenibile, perché, se si rendessero veramente esplicite certe dinamiche, il sistema non reggerebbe più.
Dunque, visto che nella realtà non si realizzeranno mai questi obiettivi, iniziamo con l’avanzare una prima critica dicendo che l’effetto ultimo di questi studi, ma soprattutto delle soluzioni proposte, è di fare ancora più confusione; infatti, da un lato si puntella meglio un sistema iniquo e dall’altro si gratificano psicologicamente coloro che necessitano di un certo tipo di risposte ai loro dubbi etici.
Ma la definizione di food policy ha dei pregressi: «Il libro di John Tarrant Food policies pubblicato nel 1980 fu uno dei primi libri che tentarono di applicare il rigore accademico all’analisi della corrente linea programmatica alimentare, restando distaccato dal processo di creazione di queste politiche ma chiaramente coinvolto con i problemi dello sviluppo e ambientali. Tarrant, sorprendentemente, a malapena definì la food policy. Il significato è lasciato implicito. La funzione della food policy è propria degli anni 1970: nutrire più persone, equamente e quantitativamente, con una concentrazione sullo sviluppo. Il suo uso del plurale – policies e non policy – nel titolo, sottolinea che gli era chiaro che il cibo è qualcosa che è conteso da interessi in concorrenza. Lui è ugualmente chiaro su cosa include e definisce la food policy: “Due spettri strettamente correlati perseguitano il mondo del futuro: carenza di cibo e carenza di energia. In entrambi i casi la tendenza del consumo mondiale sembra superare la nostra capacità di produrre”» (Lang et al., 2009:33).
Emerge quindi la consapevolezza di una problematica di fondo e se ne deduce il bisogno di creare strutture che confondano la popolazione lasciandola nell’inconsapevolezza di questa drammatica situazione in concomitanza con il mascheramento del violento processo messo in atto per il suo sostentamento. Ed infatti: «L’alleviamento della fame e della povertà è stato il punto principale nella definizione di cosa è la food policy, dando all’obiettivo un senso morale» (Lang et al., 2009:253). Con l’introduzione delle componenti morali, si cerca automaticamente la giustificazione etica ai propri comportamenti.
È chiaro che sostenibilità ed equità sono obiettivi utopici in campo agroalimentare; il fatto interessante è che sia proprio il modello di colonizzazione anglosassone, che ha creato violenze e sofferenze, ineguaglianze, schiavismo, sfruttamento sconsiderato, a partorire idee del genere. La spiegazione, come si è visto, rientra tanto nella necessità di individuare dei meccanismi per pulirsi la coscienza, quanto nella continuazione dell’opera di sfruttamento attraverso la creazione di realtà illusorie per chi è sfruttato. Ma anche parti della stessa società sfruttante necessita di giustificazioni e alleviamenti del dubbio etico per azioni delle quali non ci si vuole assumere la responsabilità. Si mettono così in atto tutta una serie di azioni che non possono avere gli esiti dichiarati perché basate, fondamentalmente, su presupposti aleatori, utopici, o fuorvianti, mentre i soggetti che hanno messo in atto la politica alimentare (seppur fallimentare come vedremo più avanti) si sentono sgravati dalle colpe delle loro azioni. Si troveranno solamente dopo delle scusanti o dei capri espiatori, si farà ammenda pubblica per i fallimenti, quando però altri ne avranno già pagato il prezzo, e così il meccanismo continuerà all’infinito, con un suo equilibrio ed una sua dinamica.
«La food policy nel 21esimo secolo […] dovrà erogare un sistema alimentare a basso impatto, far convergere i bisogni sociali e culturali della società, aumentare la biodiversità, essere socialmente giusta, contenere e ridurre le malattie correlate alla dieta e così via. Alcuni argomentano che questo può essere fatto all’interno delle esistenti economie capitalistiche; altri che questo richiede un riorientamento delle regole» (Lang et al., 2009:7).
Tutto ciò non può esistere per definizione in termini di vita e di biologia. E non c’entra assolutamente con il tipo di sistema economico che viene messo in atto, né tanto meno con particolari tipi di produzioni che hanno altre funzioni e al massimo rimanderanno il problema per qualche tempo.
«La sfida per la food policy del 21esimo secolo è come indirizzare le diseguaglianze all’interno, tanto quanto tra i Paesi. Una espressione è il movimento per il commercio equo, che cerca di raccogliere il finanziamento che viene ripagato al produttore primario dal consumatore finale. Il commercio equo è una risposta alle realtà alle volte dure del commercio “libero” e dello sfruttamento nel processo lavorativo» (Lang et al., 2009:50).
In realtà è un modo per sentirsi meglio. Il commercio equo non cambia sostanzialmente il sistema del “commercio libero”, non ne scalfisce la forza, ma anzi aiuta la società ad accettarlo, riducendo le tensioni che crea nella società “ricca”.
«Le richieste di salute ecologica pubblica del 21esimo secolo sono per fornire qualità, non solo quantità; per la sopravvivenza a lungo termine del pianeta, non solo nutrire le persone qui ed ora; per percorsi complessi più che semplici tra cibo e salute (malattia); per la giustizia alimentare intra- e inter-sociale» (Lang et al., 2009:143).
Per chiarezza è meglio qui ricordare che la giustizia alimentare e l’equilibrio alimentare sono due cose diverse. La giustizia alimentare è un costruzione etica fittizia, mentre l’equilibrio alimentare è dove si pone la domanda alimentare che viene soddisfatta, rispetto all’offerta di cibo. Il sistema mondo, per l’occhio umano, potrebbe essere fortemente in disequilibrio, ma in termini biologici può essere in equilibrio nel momento in cui le varie specie rimangono in numero costante o in una crescita costante, nonostante ci siano individui che soccombono. Un sistema alimentare in disequilibrio può creare dei dubbi etici nell’uomo (e quindi essere considerato ingiusto) ma non è detto che non sia virtuoso. Tutte le nozioni di giustizia, diritti, sostenibilità, distribuzione delle risorse alimentari sono fortemente fuorvianti anche se hanno un grandissimo valore per capire le dinamiche della società e i rapporti di forza e potere al suo interno.
«Una food policy adeguata al 21esimo secolo deve essere sensibile a questo mondo complesso del comportamento e della cultura alimentare. L’educazione alla salute, come noi abbiamo mostrato in più esempi, può essere iniziata con buone intenzioni ma col piede sbagliato trascurando e sottovalutando la cultura [locale]. La food policy ha molti esempi di buone intenzioni che hanno portato a conseguenze non previste e fallimenti dovuti a insensibilità culturale [nei luoghi di aiuto come il Terzo Mondo]» (Lang et al., 2009:245).
Non si riesce a capire come non ci si renda conto che questi fallimenti ed effetti negativi avvengono non tanto per insensibilità culturale, ma perché vi è stata una distorsione nelle valutazioni, causata da un approccio etico particolare (bias etico): si crede di risolvere problematiche che in realtà sono condizioni fisiologiche della società, con la conseguenza di andare ad alterare un equilibrio (alimentare ed economico, seppur ingiusto agli occhi dell’uomo), cosa che non può dare se non conseguenze indesiderate, anche più gravi della malnutrizione che si voleva andare a risolvere.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

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