domenica 13 maggio 2012

Il caso delle Mozzarelle Blu

<< Caso studio: le Mozzarelle blu

Nel Luglio 2010, in Italia si sono avuti tutta una serie di casi che sono stati etichettati come il fatto delle “Mozzarelle Blu”. In poche parole più volte, in quel periodo, i consumatori si sono ritrovati ad acquistare mozzarelle che, a contatto con l’aria nel momento dell’apertura della confezione, diventavano di una colorazione bluastra. Il fatto è difficilmente ascrivibile solo ad una questione di alterazione dell’alimento (modifica accidentale o per negligenza, del prodotto venduto ugualmente come originario) o ad una contraffazione dello stesso (alimento venduto spacciandolo per un altro) od ad una eventuale adulterazione (riduzione del costo di produzione a scapito del valore nutritivo, senza che ne venga alterata l’apparenza) perché comprende aspetti di tutte queste ipotesi; nel contempo può essere un caso particolare per il fatto che il manifestarsi del colore blu ha creato un’ansia alimentare nei consumatori.
Si vuole dire che, se le mozzarelle non si fossero colorate, nessuno si sarebbe reso conto della eventuale frode alimentare (sempre che possa essere considerata tale) e neppure della contaminazione. Infatti i microrganismi coinvolti in queste colorazioni (principalmente Pseudomonas fluorescens), pur derivando da acque sporche o comunque indicanti acque non pulite e magari non adatte alla trasformazione alimentare, non hanno una particolare tossicità o morbosità per l’uomo, a parte i soggetti immunodepressi che ne possono essere infettati (Industrie Alimentari, Settembre 2010:92). Il fatto è emerso perché il colore influenza la percezione del prodotto, ma non è detto che faccia male alla salute; infatti le aziende coinvolte hanno continuato a produrre e non sono state bloccate (solo i lotti di prodotto collegati a quei casi sono stati ritirati dal mercato).
Quel microrganismo non è particolarmente nocivo rispetto ad altri microrganismi, ma questi ultimi non essendo “visibili” non ci allarmano.
La letteratura scientifica riporta che anche molti microrganismi probiotici, normalmente utilizzati nelle preparazioni alimentari, possono causare infezioni anche se sono generalmente considerati non patogeni (si veda il sito del Ministero della Salute Italiano); in altre parole, alcuni ceppi dei batteri probiotici (ad esempio i Lactobacillus utilizzati per produrre yogurt e formaggi) possono portare a casi di infezione ed infezione opportunistica, soprattutto in soggetti immuno-compromessi. Per non parlare dei ceppi di funghi che danno i formaggi erborinati, potenziali produttori di tossine.
Tutto ciò per dire che la presenza del microrganismo, in sé, non comporta un problema di tipo sanitario né, tanto meno, di tipo organolettico. Ciò che può determinare un problema è quindi la quantità di microrganismo presente, a seconda della sua patogenicità, tossicità e tendenza ad alterare il prodotto alimentare rendendolo non commestibile per qualche ragione.
Nel caso delle mozzarelle, è indiscutibile che ci sia stata una carenza igienica, soprattutto nelle ultime fasi della lavorazione, e purtroppo di carenze igieniche ce ne possono essere sempre (molte anche non rilevate) in quanto, a partire dalla produzione primaria, non è possibile garantire tutti i punti della filiera. Un controllo maniacale in tal senso impedirebbe la produzione; le condizioni di rischio che inficiano la salubrità dei prodotti, se controllate al giusto livello, verranno mondate ed appianate con i successivi processi tecnologici e comunque con le più che conosciute tecniche raccolte nella teoria dell’Hurdle Technology (tecnologia degli ostacoli).
Non essendoci la possibilità di una contaminazione pari a zero, il microrganismo che è già presente nel liquido di governo della mozzarella doveva essere mantenuto ad un basso livello. In caso di condizioni igieniche “fuori controllo”, doveva essere garantita la catena del freddo (uno degli elementi dell’Hurdle Technology); non è un caso che questa problematica sia “esplosa” nel periodo estivo dove già nel momento della produzione e della distribuzione è difficile mantenere gli alimenti alla temperatura ideale; non parliamo neanche delle modalità di trasporto dal negozio alle case e delle modalità di conservazione dei prodotti nell’ambito casalingo (con i frigoriferi che non vengono mantenuti alle corrette temperature).
Se una mozzarella è blu è facile accorgersi che c’è qualcosa che non va, nessuno pensa che anche una mozzarella bianchissima potrebbe nascondere una frode, se ad esempio, come accade spesso, fosse stato aggiunto del gesso nella cagliata.
Il caso in analisi svela al massimo una contraffazione alimentare in quanto il dichiarato latte italiano dalla ditta produttrice probabilmente non era poi tale, dato che un’azienda tedesca che vendeva semilavorati alla ditta italiana in oggetto (non ci interessano i nomi commerciali per questo studio), aveva avuto nello stesso periodo dei problemi analoghi.

In campo alimentare, le frodi più frequenti, quando viene dichiarata una diversa provenienza della materia prima, riguardano l’olio, il vino, il riso e le conserve di pomodoro. E molte di queste frodi sono difficili da individuare.
Nell’olio la frode alimentare è continua, nell’inconsapevolezza del consumatore: un bel colore verde, ancorché artificioso, di un olio di oliva definito extravergine, fa credere che il prodotto sia genuino anche se deriva da oli di bassa qualità addizionati di clorofille e altre componenti per mascherarne la provenienza che approfondite analisi chimiche, alle volte, non riescono a decifrare. Invece, un cambio di colore, come nelle mozzarelle che tutti ci aspettiamo bianche, mette subito in allarme. Non importa se l’evento può essere relativamente “normale” per quel particolare prodotto. Prova ne è ciò che è avvenuto in Sardegna sull’onda della campagna mediatica delle mozzarelle blu, quando una signora nel caldo luglio 2010 ha comprato una ricotta che all’apertura della confezione mostrava colorazioni dal rosa al rosso tenue; in quel caso particolare l’agente incriminato non era un batterio, bensì un lievito “cromogeno” la cui non-pericolosità è stata dimostrata da varie analisi, considerato anche che la contaminazione riguardava solo pochi millimetri di spessore della superficie dell’alimento e che la presenza di lieviti poteva essere riconoscibile dalla pigmentazione che scoraggia il consumo di prodotti “colorati”. Anche per la ricotta si trattava di un “abuso termico” subito dal prodotto per l’interruzione della catena del freddo (che può essere avvenuta tanto nella fase di commercializzazione del prodotto quanto nella conservazione casalinga).>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

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