lunedì 26 novembre 2012

COOP, Luciana Litizzetto e lo sfruttamento dei dipendenti

A seguito di questo articolo del Corriere della Sera posso dire che nel mio libro questo argomento è trattato in maniera concisa ma efficace nell'ambito dello sfruttamento dei lavoratori della grande distribuzione alimentare con una predittiva situazione rispetto l'azienda COOPCONSUMATORI.

Sarebbe necessaria un'analisi più generale, anche sull'uso di personaggi televisivi per alterare la percezione del cliente mascherando il processo di sfruttamento. Inoltre ci sarebbe da valutare anche il personaggio "Luciana Litizzetto" che si definisce di sinistra e fustiga volgarmente le ipocrisie degli altri per poi essere lei stessa una delle più assurde icone presenti nella televisione italiana; l'unico personaggio a cui è consentito l'utilizzo del turpiloquio senza che nessuno eccepisca nulla. Questo però esula totalmente dagli argomenti trattati in questo blog.

Ecco qua però il passaggio del libro che analizza queste problematiche:

<< - Sfruttamento dei lavoratori nei punti vendita. Di casi in cui i lavoratori dei punti
vendita sono pagati poco, fanno orari difficili (lavorare anche la domenica), vengono
spiati sul luogo di lavoro si parla molto sulle pagine dei giornali. Tutte queste
situazioni sono acuite dalle tensioni competitive nel settore portando a volte, per
cercare di aumentare la produttività, riduzioni delle libertà personali. Senza cercare di
fare una casistica esaustiva richiamiamo semplicemente due casi: Coopconsumatori
(caso italiano) e Wal-Mart (caso nordamericano).
Il caso delle COOPconsumatori è interessante perché da enti di solidarietà
operaia e sociale, sono diventate delle boutique alimentari dove i nuovi operai e le
nuove classi del precariato italiano non possono permettersi di acquistare. Tra l’altro,
la creazione di un prodotto di alta qualità comporta sulla filiera l’utilizzo di pratiche
produttive che sfruttano gli addetti in modo notevole a vantaggio dell’acquirente
finale, ma a discapito della qualità della vita dei lavoratori. Fare il nome di un’azienda
ed esporre un caso è sempre imbarazzante perché bisognerebbe parlare anche delle
altre decine di casi delle ditte concorrenti, ma si è scelto il caso Coopconsumatori
perché molti dei loro messaggi aziendali hanno un carattere di eticità e questa
azienda è nata con un forte senso etico, il che rende interessante vederne il
cambiamento e l’evoluzione.
Il caso della Wal-Mart, per quel che riguarda un’ottica più vasta, viene richiamato
per gli stipendi bassi pagati ai dipendenti, per le differenze di salario tra uomini e
donne, per l’esclusione del sindacato nella contrattazione dei salari e della difesa dei
diritti dei lavoratori. Inoltre si è scoperto l’utilizzo continuativo di dipendenti non in
regola (anche se magari risultano chiamati da ditte esterne). Con l’importazione
dall’estero (soprattutto da paesi asiatici) di prodotti a basso prezzo, la Wal-Mart ha
influenzato tutta l’economia del settore in Nord America (non prettamente
alimentare), tanto da far coniare al New York Times la parola “Wal-Martizzazione”
per la società americana.>>

Tratto dal libro "ILPIATTO PIANGE" di Andrea Meneghetti


lunedì 16 luglio 2012

Insetti come alimento

Per affrontare questo argomento, sfrutto questo articolo del Corriere della Sera ricordando che considerare una fonte biologica come alimento, dipende molto dalla percezione della stessa che abbiamo.

Gli insetti sono usati da tempi immemorabili come fonti alimentari e visto che noi (intesi come paese Italia) non ne consumiamo molti (in maniera volontaria) non significa che questi non siano delle sane fonti nutrizionali.

Per esempio il consumo delle lumache (molto diffuso in Italia e in Francia) si inserisce già in questo ambito anche se per molti sarebbero comunque un pasto da evitare perchè percettivamente lo trovano disgustoso.

In paesi asiatici ed in particolare in Tailandia, gli insetti rappresentano, però, una normale fonte alimentare.

Ricordo che, a nostra insaputa, i prodotti alimentari che ogni giorno consumiamo sono pieni di residui di insetti. In particolare le farine (e tutti i prodotti in cui vengono usate), le marmellate, i succhi di frutta, i vini (ma la lista potrebbe continuare) contengono componenti che derivano da insetti, anche se presumibilmente in piccolissime quantità come zampe, antenne, emolinfa (a seguito dello schiacciamento dell'insetto nelle operazioni di trasformazione), parti di esoscheletro e apparati tegumentari vari.

Negli ultimi anni, molti studiosi (ma anche nell'articolo se ne parla) hanno proposto che gli insetti vengano allevati come fonte alternativa alle proteine animali per ridurre l'impatto degli allevamenti animali e del loro inquinamento e per limitare il consumo delle risorse ittiche di mari e fiumi.

Per fonti che suppongo attendibili, però, ciò che la FAO dice essere un cibo economico e a basso impatto, cioè gli insetti, in realtà a seguito del loro allevamento, diventano dei prodotti anche più costosi di carne e pesce e il cui livello di inquinamento nell'ambiente e di residui chimici nell'alimento è ancora tutto da valutare. A proposito di quest'ultimo punto, per il fatto che anche gli insetti subiscono attacchi parassitari, il trattamento "in massa" degli insetti di allevamento con anti-parassitari per ridurre le perdite produttive, potrebbe non garantire la salubrità di questo specifico alimento.

In altre parole, non è detto che seppur sani questi alimenti possano venire accettati sia in qualità che in quantità dal nostro organismo che si è evoluto in una certa maniera

Infine vorrei ricordare che non basta cercare delle fonti alternative alle proteine per risolvere un problema che tornerà fuori con sempre maggiore vigore nei prossimi anni a seguito dell'aumento della popolazione mondiale. Infatti, come riporto nel libro a proposito di altre ricerche sullo stesso argomento:
<< Guardando il problema da un’altra prospettiva, al posto del consumo di carne si stanno cercando di promuovere fonti proteiche alternative per lo sviluppo della popolazione mondiale: la soia per fare il Tofu e il Miso; il glutine di frumento tenero, farro e kamut per fare il Seitan; si stanno inoltre facendo ricerche per ricavare, tramite lieviti e funghi, da carboidrati, cellulose e altri substrati vegetali, alimenti ad alto contenuto proteico che teoricamente vorrebbero sostituire il prodotto animale insufficiente, inquinante ed eticamente controverso. C’è solo un’obiezione a questo: se, come abbiamo visto, anche i bovini sono geneticamente strutturati per mangiare erba e non granaglie, anche il nostro organismo, ma soprattutto il nostro gusto è geneticamente determinato per preferire la carne, sia come struttura e consistenza (texture) che come sapori ed odori (flavour). >>

In altre parole, non è detto che seppur sani questi alimenti possano venire accettati sia in qualità che in quantità dal nostro organismo che si è evoluto in una certa maniera.

Andrea Meneghetti

giovedì 12 luglio 2012

Critica alla Food Policy 2/2

<<                    .........
Questo bias etico si esprime anche nella ricerca di una formula magica che risolva, completamente e definitivamente, il problema alimentare e i dubbi etici che si porta dietro. Nel seguente passaggio si realizza almeno che si riconosce una certa difficoltà per individuarla: «Non c’è un singolo fattore che determina la povertà alimentare e le ingiustizie; nessuna “pallottola magica” può mutarli» (Lang et al., 2009:265). Ma il punto da analizzare è perché si dovrebbero trasformare questi fattori, perché cambiare un sistema che va in una certa direzione da milioni di anni. La presenza di un bias etico è evidente. Si imposta una analisi distorta della realtà in cui si vive e si crede di avere le potenzialità e la possibilità statistica di creare una situazione ideale, o meglio, idealizzata.
E ancora: «La formula favorita [per risolvere la crisi alimentare globale] fu molto ripetuta dai differenti interessi: liberalizzazione del mercato; l’ingiustizia delle regole del mercato; il bisogno dei cibi GM [geneticamente modificati] e altre soluzioni tecnologiche; il caso delle aziende agricole di piccola scala; il caso pro e contro i biocarburanti; il ruolo della speculazione; e più. […] Ci sono una miriade di queste opzioni: intensivo o biologico? Cibi funzionali o cambio delle diete? Biocarburanti o cibo?» (Lang et al., 2009:45). Il loro numero ci svela ancora una volta che non c’è una soluzione, anche perché sarebbe da chiedersi che cosa dovremmo mai risolvere; il mondo biologico ha dei limiti che non possono essere superati e vanno accettati.
Sicuramente ci sarà l’attuazione, anche parziale, di alcune di queste opzioni che, come unica conseguenza probabile, procrastineranno il momento del collasso del pianeta, riorganizzeranno la tensione competitiva, sposteranno il problema su altri fattori.
Dato che il collasso non avverrà in tempi brevi, è giusto che queste food policies agiscano per dissimulare e rendere meno pesante la realtà; bisogna capire però che, se prese troppo sul serio ed applicate su larga scala come una panacea, possono creare dei gravi scompensi dal punto di vista produttivo, oltre che creare limitazioni all’espressione dei singoli e delle loro libertà, con conseguenza ultima la riduzione dell’evoluzione dell’uomo.
Chi deve, quindi, gestire sia le crisi alimentari che le utopie dei cittadini, sono i governi: «Nonostante le ampie connessioni, pochi governi sposano apertamente il bisogno di ridurre le ineguaglianze della distribuzione dei redditi, per paura di mandare segnali antimercato» (Lang et al., 2009:270).
Forse non è solo questa paura il motivo per cui non si riducono le ineguaglianze. Infatti, è proprio la struttura delle ineguaglianze che crea la ricchezza. Per spiegare questa affermazione, possiamo aiutarci con alcuni esempi concreti, il primo mutuato dalla chimica: le differenze di concentrazione di due soluzioni danno  un certo potenziale chimico che può essere sfruttato dall’uomo (vedi le batterie delle auto e dei congegni elettronici); ma anche un composto più o meno concentrato o raffinato consente l’efficacia di molte reazioni utili sia in campo industriale che farmaceutico. In campo biologico, la possibilità della compartimentazione e del mantenimento di disuguaglianze e differenze nei vari mezzi e liquidi biologici (membrane cellulari) ha consentito lo sviluppo della vita sulla terra. Dal punto di vista architettonico, le diseguaglianze sociali hanno garantito la possibilità di creare i più bei monumenti sia per quanto riguarda l’aspetto ingegneristico (ad esempio la Reggia di Versailles) che per l’aspetto artistico (avere la possibilità di pagare un artista, o la possibilità di una società di avere al suo interno degli artisti, comporta delle diseguaglianze nella distribuzione economica ma anche nella distribuzione delle competenze da svolgere nella stessa).
Dunque le diseguaglianze sociali sono state e sono sempre presenti e funzionali alla ricchezza ed il compito dei Governi, oltre a mantenere il conflitto ad un livello accettabile, è anche quello di dissimulare le differenze sociali e far credere che ci sia una generale possibilità di scelta da parte del consumatore:
«La linea programmatica pubblica, di certo, si interessa degli aspetti comportamentali e del consumatore riguardo il cibo, e gli stati raccolgono i dati delle spese e dei consumi, ma di solito questo è fatto in maniera limitata e non nel modo famelico con cui lo fa il settore economico. I ministri diranno che la scelta alimentare è concessa, un pilastro sacrosanto della politica alimentare; il diritto individuale alla scelta alimentare è sommo. Nessun pubblicitario, comunque, prende questa posizione semplicistica; i distributori e l’intera industria interessata vogliono sapere che cosa determina la scelta, quanto ampia è e se ogni persona la applica alla stessa maniera, come e quando il comportamento cambia. […] Ignorare questa dimensione [sociale del cibo] vuole dire distorcere la realtà e anche restringere il potenziale dello sviluppo delle linee programmatiche» (Lang et al., 2009:224).
Ancora una volta dobbiamo sottolineare che il cibo è un prodotto sul quale i vari operatori della catena vogliono (e devono) guadagnare. La posizione dello Stato e delle sue linee programmatiche, quindi, non ha la funzione di difendere il consumatore, ma di gestire il fenomeno, mantenendo accettabile il rapporto tra sfruttatore e sfruttato. Le varie dichiarazioni di sovranità alimentare e di diritti al cibo da parte dei responsabili politici hanno la funzione di ridurre le tensioni e dare un contentino a chi realizza di non avere possibilità di scelta. Proporre una visione edulcorata della realtà consente di controllare la situazione, di orientare i consumatori verso scelte negative per la loro salute o limitanti la loro libertà personale, ma funzionali al sistema economico.
Contemporaneamente società e Stati mettono in atto attività che dovrebbero servire a risolvere i vari problemi della catena alimentare, compreso il problema della fame; «Molte società hanno un miscuglio di misure che mancano di coesione» nota Lang. E infatti, esse non servono a risolvere nulla, ma calmano gli animi mettendo una pezza di volta in volta, dove serve, facendo credere che si stia facendo qualcosa.
«Sarebbe inappropriato lasciare l’esposizione sul WFP [World Food Programme] e il suo ruolo di aiuto alimentare nelle crisi. Dietro un sipario di sentimento umanitario e apparente successo  nelle crisi [umanitarie] può risiedere qualche dubbiosa pratica e meno altruistiche motivazioni. L’aiuto alimentare è stato criticato per il fatto di essere corrotto, troppo legato agli interessi occidentali, collegato agli interessi dell’Agenzia, dominato da élite locali e che manca di raggiungere coloro che maggiormente ne necessiterebbero. […] I critici dichiarano che l’aiuto è diventato routinario, un’industria e non una soluzione» (Lang et al., 2009:274).
Il WFP è uno strumento che da un lato serve per placare gli oppressi e dall’altro riesce a schermare i sensi di colpa della società opulenta, è quindi strettamente funzionale alla struttura sociale mondiale e di conseguenza locale quando agisce in determinati modi. Ne risulta un chiaro esempio di come deve funzionare la politica di aiuto alimentare inserita nella più ampia programmazione pubblica. Non deve quindi risolvere alla base problemi che non potranno mai essere risolti, ma garantire la prosperità delle società e consentire che le differenze sociali siano mantenute ad un giusto grado.
Arriva tuttavia un momento in cui è comunque necessario trovare nuove forme, sempre più raffinate, di controllo sociale; si accorgono in troppi che le azioni messe in atto non funzionano davvero, come è stato dichiarato in relazione al WFP da un autore che dovrebbe essere tra i promotori di queste azioni. A seguito di maggiori informazioni fornite da parte dei media, di modifiche dell’empatia nelle società e quindi della strutturazione di nuove percezioni, anche la food policy deve modificarsi per funzionare: «[…] ci sono episodi di cambiamento delle linee programmatiche che stanno accadendo, che segnalano la crescita di consapevolezza delle prerogative della salute pubblica ecologica […] Comunque, questi processi di cambiamento nella food policy sono complessi e hanno ancora molta strada da fare» (Lang et al., 2009:96). Quest’ultima affermazione è molto interessante perché pone già le basi per giustificare, nel futuro, il fallimento nei risultati ricercati.
Infatti per definizione la food policy si pone obiettivi utopici, che devono comunque essere spiegati anche nei loro fallimenti “congeniti”, altrimenti verrebbe meno l’efficacia delle politiche; ne deriva che le sue modifiche sono legate all’esigenza di adattare le politiche all’evolvere della società. Dunque, nell’analisi di questo tipo di fenomeni, c’è sempre da valutare se l’obiettivo dichiarato sia quello realmente ricercato e se i presupposti del ragionamento siano corretti.
Il seguente passaggio esprime con una certa chiarezza quali sono le problematiche che si devono gestire in questo periodo storico: «La sfida che noi affrontiamo ora è come incoraggiare – velocemente ma sensibilmente – la produzione, distribuzione e il consumo di un bene migliorante la salute e una dieta basata su principi ambientalisti» (Lang et al., 2009:3). Questo è un obiettivo utopico e fasullo, creato per illudere che ci possa essere una soluzione alla lenta distruzione del pianeta e delle sue risorse, e che ci sia un’attenzione per i bisogni del consumatore. Ed infatti, qualche pagina dopo, troviamo: «La prova, per le food policies, è se possano fornire un sistema alimentare sano, sicuro, salubre, sostenibile, produttivo e giusto». È chiaro che è impossibile, ma prevale l’esigenza sociale e individuale di credere che lo sia, per alleviare i dubbi etici conseguenti alla percezione della violenza e della sofferenza insite nel processo produttivo e delle ingiustizie e devastazioni che ne sono l’effetto.
Tra l’altro, gli obiettivi ideali si scontrano con le direttive che ad esempio arrivano da chi indica linee dietetiche che mal si sposano con l’eccessivo popolamento del pianeta: «La scienza della nutrizione ora manda segnali complessi ai creatori delle politiche, ed un dubbio potrebbe essere espresso come se questa più sofisticata comprensione fosse un esempio del problema della cacofonia della linea programmatica, dove voci in concorrenza, ognuna con buona evidenza, fallisce nel fornire una coerente politica» (Lang et al., 2009:101-102). Forse, la mancata coerenza della food policy è da ricercare negli errati presupposti di partenza, o meglio in presupposti di convenienza che servono solo a distogliere l’attenzione da una realtà difficilmente accettabile. È evidente che chi auspica determinati livelli nutrizionali si scontra con chi richiede un sistema produttivo sostenibile, solo per fare un esempio; ne deriva che la richiesta di un’azione varia tra i diversi attori perché ognuno ha una visione parziale e settoriale.
«Un enigma (quantità versus qualità; produzione di cibo versus il suo impatto ambientale) corre attraverso la moderna food policy» (Lang et al.. 2009:49).
Se i presupposti del ragionamento continueranno ad essere errati, è chiaro che di questi enigmi ne troveremo lungo tutta la catena agroalimentare. La loro individuazione e la ricerca di potenziali soluzioni agli stessi riempirà le giornate di coloro che, già ben nutriti, non avranno interesse ad affrontare in maniera scientifica tutti questi argomenti. Così otterranno di distogliere l’attenzione dai veri punti cruciali del ragionamento, permettendo il mantenimento dello status quo delle cose. Nel frattempo coloro che chiedevano più considerazione perché stavano morendo di fame, invecchieranno e moriranno o vedranno l’annichilimento delle loro istanze, la forza delle loro richieste sempre più debole. Ma coloro che vedono in questi “filosofi” i punti di riferimento delle loro richieste etiche saranno rasserenati e continueranno a vivere le loro vite impattanti sul sistema ecologico pulendosi la coscienza con un’offerta di beneficenza a Natale.
Se questi “filosofi” si limitassero alla loro funzione sociale sarebbe importante, invece eccedono nella loro ricerca di soluzioni con conseguenze anche deleterie. «L’argomento qui analizzato è che la moderna creazione di politiche affronta una complessità considerevole per quel che riguarda come il cibo dovrebbe essere ed è coltivato, processato, distribuito e consumato» (Lang et al., 2009:8), ma questo ricercare come dovrebbero essere fatte le cose e cercare anche di realizzare un processo produttivo, eticamente mediato, è molto rischioso. Si vogliono trovare realmente delle soluzioni (che non ci sono) al problema alimentare ma soprattutto si vuole realmente applicarle: «Questo [criterio di salute ecologica pubblica] richiede di aiutare i consumatori a condurre e mangiare all’interno di una nuova cultura etica alimentare, dove l’etica e la moralità si fondono con la giustizia sociale. Di più, questo richiede un approccio interdisciplinare, con indicatori sia sociali che biofisici» (Lang et al., 2009:51).
È evidente l’approccio sbagliato e distorto all’etica che peraltro, quando applicato, da subito creerebbe una diatriba sulle fasce di popolazione alle quali imporre eventuali restrizioni: solo le fasce povere o anche i ricchi? L’introduzione di limiti crea ingiustizie e restrizioni alle libertà personali oltre quelle esistenti, anche se più o meno percepite o diversamente rivendicate. Eppure, nel momento in cui si voglia mantenere un sistema “giusto” (artefatto), sarà necessario esercitare pressioni psicologiche o coercitive, con dispendio di energie; oppure ci sarà la creazione di altre violenze fisiche. La conseguenza è di andarsi a cacciare in un vicolo cieco, per il fatto che non si è accettato il fatto che la creazione ed il reperimento del cibo sono tutto tranne che “giusti” per come l’intende la nostra etica e quindi sarebbe meglio che queste “food policies” si limitassero dichiaratamente a far credere (come la maggior parte delle volte accade), a chi ne ha bisogno, che si stia facendo qualcosa.
«Almeno fino alla fine del ventesimo secolo, c’era sufficienza di offerta. Ma la continua esistenza di malnutrizione, carestie e morti premature dovute alle carenze [alimentari] suggerisce che produrre a sufficienza non è la stessa linea programmatica del distribuirlo equamente» (Lang et al., 2009:46). Qui il punto da sottolineare è che non è detto che la produzione debba essere distribuita e soprattutto in modo equo.
«Nel 1970 e 1980, iniziammo anche a riconoscere il fatto che la moderna food policy è solo in parte a proposito del se e come la produzione di cibo può essere aumentata; l’altra parte è a proposito di cosa è prodotto e consumato e quanto equamente» (Lang et al., 2009:35). Ancora una volta: che significa “equamente”? Quando un prodotto può essere considerato equo? E lo è in modo assoluto o lo si deve considerare solo da un punto di vista dell’etica?
La giustizia sociale è un artificio etico, non è presente in natura. Serve all’uomo per sentirsi in equilibrio con se stesso. Ed infatti non è espresso da tutte le popolazioni e da ogni soggetto nella stessa maniera e agli stessi livelli.
Analogamente, appare un artificio il concetto di “democrazia alimentare”, «termine che si riferisce al lungo processo di battaglia per il miglioramento nel cibo per tutti, non i pochi, che incorpora il principio della cittadinanza alimentare con i diritti e le responsabilità che questo porta» (Lang et al., 2009:51).
Colpisce ancora che siano gli Anglosassoni a chiedere giustizia, rispetto e libertà, col loro pesante bagaglio storico. Ma questa non vuole essere una sciocca polemica anticolonialistica; infatti, se si riuscisse a sciogliere questo controsenso, si potrebbe forse individuare una raffinata ed efficace scuola di potere che tramite etica, uso della forza e creazione di illusioni mediatiche, è riuscita a governare il mondo. Un aspetto interessante che si può individuare è che spesso le popolazioni anglofone, a differenza di quelle latine, “chiedono scusa” e fanno pubblica ammenda dei danni che hanno commesso nel loro passato (danni comunque leciti nel senso che sono stati fonte di prosperità). C’è sempre un doppio binario tra etica personale e morale sociale, e quest’ultima viene costantemente disattesa per raggiungere gli interessi personali finché non si viene scoperti: in quel momento ci sarà la presentazione delle scuse e la pubblica gogna (le famose lacrime di coccodrillo). E, come si è visto, nel contempo il meccanismo della beneficenza, molto ben strutturato in quelle società, verrà a sostegno delle coscienze giustificando la ricchezza economica ottenuta a discapito di altri.
Un altro punto vale la pena d’essere ulteriormente trattato: l’impossibilità di risolvere dei problemi per forze di causa maggiore facendo credere, invece, di avere trovato una soluzione. Anche nella food policy si cercano delle soluzioni a situazioni immutabili (come la fine della fame nel mondo) con la costruzione di castelli ideologici fittizi, con presupposti assurdi analizzati e rianalizzati per scaricare l’ansia e l’incertezza che nasce dal dubbio etico. Si profilano così soluzioni illusorie ma bellissime (come appunto la fine della fame del mondo) e ci si attiva, senza molta convinzione, per poter dire di averci provato. Dopo qualche anno si dichiara che a causa di condizioni avverse, non si è riusciti a portare a termine il progetto; così intanto sono passati 10-20 anni, le coscienze sono a posto, le cose sono rimaste invariate e prospere per coloro che avevano il potere, e alcuni di quelli che si lamentavano non ci sono più.
In conclusione, le food policies offrono soluzioni temporanee, che hanno anche degli effetti nel breve termine ma non risolvono il problema dell’iniquità della distribuzione delle risorse, problema ineliminabile perché fisiologico della società e dell’umanità; si traducono così in venditori di sogni.>>


(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

lunedì 9 luglio 2012

Critica alla Food Policy 1/2

<< Caso studio: critica alla Food Policy

Nei Paesi di lingua anglosassone e precisamente in Gran Bretagna, esiste un movimento culturale che possiamo ricondurre al termine di Food Policy, che ha lo scopo fondamentale di analizzare, dal punto di vista filosofico, il sistema alimentare mondiale e di considerare e cercare di risolvere le varie tensioni presenti a livello di produzione, distribuzione e consumo del cibo. Il più importante esponente di questo movimento è Tim Lang della City University of London.
Nel suo recente libro, che prenderemo a riferimento per questo paragrafo, la food policy viene definita come «lo studio delle linee programmatiche alimentari […] La creazione delle politiche influenza chi mangia cosa, quando e come; e se le persone (e gli animali) mangiano e con quali conseguenze. L’ambito di ricerca della food policy si estende da come il cibo è prodotto e coltivato a come è processato, distribuito e consumato; dalle strutture che modellano la fornitura di cibo, a quelle che determinano salute e ambiente; dalle scienze e processi che liberano i potenziali alimentari, alla amministrazione formale e i gruppi di potere che cercano di controllarla; dall’impatto che la dinamica sistemica alimentare ha sulla società, al modo in cui le sue richieste sono concesse nella creazione delle politiche stesse. L’importanza e lo scopo nello studio della food policy, quindi, è di aiutare a dipanare le complesse relazioni tra cibo e questi altri domini di esistenza con lo scopo di rendere ciò che è altrimenti implicito (o nascosto dietro le quinte) più esplicito, aperto e democraticamente spiegabile» (Lang et al., 2009:21-22).
Ora, se la definizione scientifica dell’ambito operativo può essere condivisa – perché lo studio delle dinamiche alimentari serve alla società – gli scopi dichiarati soffrono di una prospettiva utopistica oltre che insostenibile, perché, se si rendessero veramente esplicite certe dinamiche, il sistema non reggerebbe più.
Dunque, visto che nella realtà non si realizzeranno mai questi obiettivi, iniziamo con l’avanzare una prima critica dicendo che l’effetto ultimo di questi studi, ma soprattutto delle soluzioni proposte, è di fare ancora più confusione; infatti, da un lato si puntella meglio un sistema iniquo e dall’altro si gratificano psicologicamente coloro che necessitano di un certo tipo di risposte ai loro dubbi etici.
Ma la definizione di food policy ha dei pregressi: «Il libro di John Tarrant Food policies pubblicato nel 1980 fu uno dei primi libri che tentarono di applicare il rigore accademico all’analisi della corrente linea programmatica alimentare, restando distaccato dal processo di creazione di queste politiche ma chiaramente coinvolto con i problemi dello sviluppo e ambientali. Tarrant, sorprendentemente, a malapena definì la food policy. Il significato è lasciato implicito. La funzione della food policy è propria degli anni 1970: nutrire più persone, equamente e quantitativamente, con una concentrazione sullo sviluppo. Il suo uso del plurale – policies e non policy – nel titolo, sottolinea che gli era chiaro che il cibo è qualcosa che è conteso da interessi in concorrenza. Lui è ugualmente chiaro su cosa include e definisce la food policy: “Due spettri strettamente correlati perseguitano il mondo del futuro: carenza di cibo e carenza di energia. In entrambi i casi la tendenza del consumo mondiale sembra superare la nostra capacità di produrre”» (Lang et al., 2009:33).
Emerge quindi la consapevolezza di una problematica di fondo e se ne deduce il bisogno di creare strutture che confondano la popolazione lasciandola nell’inconsapevolezza di questa drammatica situazione in concomitanza con il mascheramento del violento processo messo in atto per il suo sostentamento. Ed infatti: «L’alleviamento della fame e della povertà è stato il punto principale nella definizione di cosa è la food policy, dando all’obiettivo un senso morale» (Lang et al., 2009:253). Con l’introduzione delle componenti morali, si cerca automaticamente la giustificazione etica ai propri comportamenti.
È chiaro che sostenibilità ed equità sono obiettivi utopici in campo agroalimentare; il fatto interessante è che sia proprio il modello di colonizzazione anglosassone, che ha creato violenze e sofferenze, ineguaglianze, schiavismo, sfruttamento sconsiderato, a partorire idee del genere. La spiegazione, come si è visto, rientra tanto nella necessità di individuare dei meccanismi per pulirsi la coscienza, quanto nella continuazione dell’opera di sfruttamento attraverso la creazione di realtà illusorie per chi è sfruttato. Ma anche parti della stessa società sfruttante necessita di giustificazioni e alleviamenti del dubbio etico per azioni delle quali non ci si vuole assumere la responsabilità. Si mettono così in atto tutta una serie di azioni che non possono avere gli esiti dichiarati perché basate, fondamentalmente, su presupposti aleatori, utopici, o fuorvianti, mentre i soggetti che hanno messo in atto la politica alimentare (seppur fallimentare come vedremo più avanti) si sentono sgravati dalle colpe delle loro azioni. Si troveranno solamente dopo delle scusanti o dei capri espiatori, si farà ammenda pubblica per i fallimenti, quando però altri ne avranno già pagato il prezzo, e così il meccanismo continuerà all’infinito, con un suo equilibrio ed una sua dinamica.
«La food policy nel 21esimo secolo […] dovrà erogare un sistema alimentare a basso impatto, far convergere i bisogni sociali e culturali della società, aumentare la biodiversità, essere socialmente giusta, contenere e ridurre le malattie correlate alla dieta e così via. Alcuni argomentano che questo può essere fatto all’interno delle esistenti economie capitalistiche; altri che questo richiede un riorientamento delle regole» (Lang et al., 2009:7).
Tutto ciò non può esistere per definizione in termini di vita e di biologia. E non c’entra assolutamente con il tipo di sistema economico che viene messo in atto, né tanto meno con particolari tipi di produzioni che hanno altre funzioni e al massimo rimanderanno il problema per qualche tempo.
«La sfida per la food policy del 21esimo secolo è come indirizzare le diseguaglianze all’interno, tanto quanto tra i Paesi. Una espressione è il movimento per il commercio equo, che cerca di raccogliere il finanziamento che viene ripagato al produttore primario dal consumatore finale. Il commercio equo è una risposta alle realtà alle volte dure del commercio “libero” e dello sfruttamento nel processo lavorativo» (Lang et al., 2009:50).
In realtà è un modo per sentirsi meglio. Il commercio equo non cambia sostanzialmente il sistema del “commercio libero”, non ne scalfisce la forza, ma anzi aiuta la società ad accettarlo, riducendo le tensioni che crea nella società “ricca”.
«Le richieste di salute ecologica pubblica del 21esimo secolo sono per fornire qualità, non solo quantità; per la sopravvivenza a lungo termine del pianeta, non solo nutrire le persone qui ed ora; per percorsi complessi più che semplici tra cibo e salute (malattia); per la giustizia alimentare intra- e inter-sociale» (Lang et al., 2009:143).
Per chiarezza è meglio qui ricordare che la giustizia alimentare e l’equilibrio alimentare sono due cose diverse. La giustizia alimentare è un costruzione etica fittizia, mentre l’equilibrio alimentare è dove si pone la domanda alimentare che viene soddisfatta, rispetto all’offerta di cibo. Il sistema mondo, per l’occhio umano, potrebbe essere fortemente in disequilibrio, ma in termini biologici può essere in equilibrio nel momento in cui le varie specie rimangono in numero costante o in una crescita costante, nonostante ci siano individui che soccombono. Un sistema alimentare in disequilibrio può creare dei dubbi etici nell’uomo (e quindi essere considerato ingiusto) ma non è detto che non sia virtuoso. Tutte le nozioni di giustizia, diritti, sostenibilità, distribuzione delle risorse alimentari sono fortemente fuorvianti anche se hanno un grandissimo valore per capire le dinamiche della società e i rapporti di forza e potere al suo interno.
«Una food policy adeguata al 21esimo secolo deve essere sensibile a questo mondo complesso del comportamento e della cultura alimentare. L’educazione alla salute, come noi abbiamo mostrato in più esempi, può essere iniziata con buone intenzioni ma col piede sbagliato trascurando e sottovalutando la cultura [locale]. La food policy ha molti esempi di buone intenzioni che hanno portato a conseguenze non previste e fallimenti dovuti a insensibilità culturale [nei luoghi di aiuto come il Terzo Mondo]» (Lang et al., 2009:245).
Non si riesce a capire come non ci si renda conto che questi fallimenti ed effetti negativi avvengono non tanto per insensibilità culturale, ma perché vi è stata una distorsione nelle valutazioni, causata da un approccio etico particolare (bias etico): si crede di risolvere problematiche che in realtà sono condizioni fisiologiche della società, con la conseguenza di andare ad alterare un equilibrio (alimentare ed economico, seppur ingiusto agli occhi dell’uomo), cosa che non può dare se non conseguenze indesiderate, anche più gravi della malnutrizione che si voleva andare a risolvere.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

martedì 3 luglio 2012

Impatto ambientale del trasporto

<< Impatto ambientale del trasporto

A causa della struttura della società, della specializzazione del lavoro e dell’umanizzazione del territorio, le aree di produzione degli alimenti non coincidono con i luoghi di consumo degli stessi. Gli alimenti, quindi, per essere portati ai consumatori, necessitano dell’utilizzo di combustibili fossili e vengono trasportati anche per migliaia di chilometri.
Negli ultimi anni si è sviluppata la percezione che ciò sia molto impattante per l’ecosistema e molti si interrogano sulle possibili soluzioni: «Da anni nel Regno Unito si è avviata una discussione sui food miles, cioè sui chilometri percorsi dal cibo prima di arrivare sui banchi di vendita. Il cibo che viaggia è produttore di costi occulti e inquinamento derivanti dai processi di distribuzione, perciò comincia ad affermarsi l’idea che il cibo non possa essere giudicato solo per attributi come qualità, aspetto e prezzo, ma anche in base ai chilometri percorsi per arrivare ad un determinato punto vendita» (Franchi, 2009:120).
Il primo aspetto da valutare è che l’aumentata percezione del problema sorge grazie a studi scientifici e propaganda diffusa sulle problematiche connesse alla distribuzione commerciale. Il problema dell’impatto ambientale si lega a ogni genere di prodotto, ma il cibo, non essendo un bene ad uso ripetuto o strumentale, catalizza su di sé più perplessità e stimola un dibattito che ha delle valenze di tipo etico sui seguenti punti:
- emissione di CO2 nella produzione e nel trasporto;
- consumo energetico;
- inquinamento atmosferico;
- congestione del traffico;
- incidenti stradali e perdite in vite umane oltre che in prodotti;
- inquinamento acustico.
Tra le conseguenze vi è la richiesta, da parte di molti, di una normativa che imponga la  riduzione della possibilità che il cibo venga trasportato per lunghe distanze.
Un fenomeno che esprime tale esigenza è il caso dei cibi a “km zero”, cioè di quegli alimenti che vengono venduti in un’area molto vicina a quella di produzione. Su questo argomento, che necessiterebbe di un approfondimento (soprattutto in merito al reale effetto di questa opzione sull’impatto ambientale), diremo soltanto che la richiesta di questa modalità commerciale è sicuramente mediata da una forte caratterizzazione etica, specie in chi acquista questi prodotti. La necessità di credere di fare una buona cosa sollecita questo tipo di acquisti e anche la scelta di alcuni produttori di vendere in un determinato canale.
Dall’altro lato, un aspetto da considerare è che la distribuzione commerciale crea ricchezza. Vietare al cibo di viaggiare impoverisce il mondo sia nella disponibilità quantitativa di derrate e potenzialità nutrizionali, che di ricchezza di territori che non possono ricavare reddito e valore aggiunto sulle loro produzioni. Sarebbe da domandarsi, ad un certo punto, perché il prosciutto crudo italiano può viaggiare e creare economia, mentre il vino cileno o le susine sudafricane non lo possono fare. La risposta non è facile da trovare perché implicherebbe ulteriori dubbi etici nella individuazione delle fasce di popolazione che possono consumare determinati prodotti e a certi prezzi. In ogni caso, è difficile vietare per legge dei consumi (negherebbe lo sviluppo e la democrazia), ma una evoluzione legislativa per favorire la produzione ed il consumo dei prodotti a “km zero” è auspicabile, ed è un trend che sta prendendo piede in tutta Europa come nel resto del Mondo.
Ancora, è errato pensare che i prodotti alimentari siano disponibili ovunque; in primo luogo, non tutte le aree della terra producono a sufficienza: non tutte sono in grado di produrre tutte le sostanze nutritive necessarie, che possono venir meno in determinate stagioni, o  ancora a causa di fenomeni naturali (siccità, alluvioni, grandine ecc.); inoltre ci sono zone della terra “difficili”, dove non crescerebbe nulla, ma che pure sono umanizzate perché producono, ad esempio, materie prime; qui il cibo deve per forza essere trasportato.
Il cibo deve quindi viaggiare. Per assurdo, se non viaggiasse forse non sarebbe nemmeno cibo (che abbia fatto un chilometro o diecimila), almeno nei termini in cui noi lo consideriamo tale.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

domenica 1 luglio 2012

Impatto dell’allevamento sull’ambiente

<< Impatto dell’allevamento sull’ambiente

Enti quali la FAO, riviste (ad esempio il WWM - World Watch Magazine) e giornali come il Corriere della Sera in Italia, nonché associazioni di cardiologia e nutrizione hanno promosso una campagna di comunicazione sull’impatto che gli allevamenti di bestiame da carne per alimentazione umana esercitano sull’ambiente.
Il dato scientifico rilevato nel dossier 2006 della FAO attesta che il settore della carne causa il 18% delle emissioni totali di gas serra dovute ad attività umane.; il WWM, con un articolo di Goodland e Anhang (Novembre/Dicembre 2009, Volume 22, n.6) porta le emissioni di CO2 da parte del bestiame e dei suoi sottoprodotti fino al 51% delle emissioni di gas serra totali. Lo studio ha sollevato un caso etico tra i lettori sia dal punto di vista ambientale che salutistico, anche perché consumare molta carne presenta controindicazioni nutrizionali che vengono pure riportate: sviluppo di malattie degenerative croniche legate al consumo di animali da allevamento (patologie coronariche, cancro, diabete, ipertensione…).
Queste campagne di comunicazione trasmettono il messaggio che bisogna cambiare la dieta della popolazione perché così si salvaguarda la salute e nel contempo l’ambiente. Si può verificare, quindi, un cambiamento dei comportamenti alimentari in una parte della popolazione, a prescindere da un effetto reale sulle condizioni dell’ambiente.
Il soggetto che modifica la sua alimentazione prova sollievo ad agire in tale maniera, sia dal punto di vista psicologico, perché sente di fare una cosa “giusta”, che da quello fisiologico, per la maggiore attenzione ai componenti nutrizionali della sua nuova dieta.
Quello che si vuole sottolineare è che questo cambiamento comportamentale è conseguente ad un cambiamento dell’etica della gente, in relazione a cosa considera giusto o sbagliato; di fondamentale importanza, però, è rilevare che la soluzione trovata per “scaricare” il problema etico a livello psicologico pospone o cerca di coprire il fatto che c’è un impatto ambientale dell’uomo per il solo fatto di esistere, anche se consuma solo prodotti di origine vegetale.
Bisogna sottolineare quella che è stata la capacità adattiva dell’uomo come essere vivente. Una volta, infatti,  questo modello di sviluppo garantiva l’equilibrio e nessuno si faceva scrupoli o domande; oggi, per una esigenza nuova (anche evolutiva), questi nuovi movimenti vengono promossi e producono degli effetti sia a livello personale che generale. Si tratta di una evoluzione legata a bisogni nuovi, e tutto parte da una nuova forma del nostro percepire che si traduce in azioni diverse: niente altro che un rimodellamento delle nostre connessioni neuronali.

Dagli studi citati emerge che l’uomo e le sue produzioni alimentari hanno un fortissimo impatto ambientale e per ridurlo sembrerebbe sufficiente dismettere un certo tipo di sviluppo e di pratiche agricole.
In realtà non si può non considerare che sul piatto ci sono anche altri interessi che tirano da tutt’altra parte, come gli interessi degli allevatori, dei contadini e delle imprese agricole, delle industrie alimentari ecc. Attorno a queste realtà ci sono famiglie che vivono di queste attività e certo non vorranno rinunciare ai loro redditi.
Ma c’è anche da considerare i consumatori più poveri dal punto di vista economico, che creano una domanda di prodotti a basso costo e non possono permettersi la qualità e (insieme) il basso impatto ambientale delle loro derrate. Per non parlare di tutte le popolazioni dei paesi in via di sviluppo che spingono per avere più terre da coltivare, più cibo e più servizi; a questi ultimi si può raccontare ciò che si vuole, ma restano un fenomeno inarrestabile e molto critico per i futuri scenari del mondo. Ognuno, quindi, tira l’acqua al suo mulino sul presente che deve vivere, e ciò comporta e comporterà degli inevitabili scontri.
Le proposte di rinunciare agli armenti come fonte alimentare proteica lascia il tempo che trova perché ci sono tutta una serie di prodotti legati al loro allevamento ai quali è difficile rinunciare: latte, formaggi e derivati, uova, cuoio, ossa e pellami, lana e filati, piume.
Se poi, invece di allevare vacche per la carne, dessimo gli stessi spazi all’agricoltura per l’alimentazione umana, il problema dell’inquinamento non cambierebbe. Infatti se rinunciassimo alle vacche, la stessa CO2 sarebbe prodotta dagli esseri umani sfamati con quei prodotti, perché i numeri sono quelli. Non ci si può giocare poi molto. Senza tralasciare il discorso della sostenibilità economica, che in alcuni casi appare possibile, ma in altri assolutamente no (ad esempio produrre mais in Argentina per portarlo in India a popolazioni che non possono pagare il prodotto non ha senso in termini economici e nessun senso biologico).
Il punto è che per portare in crescita l’animale (per le varie funzioni vitali, anche il solo mantenimento della temperatura corporea) c’è un consumo energetico (metabolismo omeostatico). Per questo la resa di conversione Amidi/Proteine è bassa.
Sicuramente una analisi (e revisione?) delle modalità di allevamento animale e una valutazione del loro impatto ambientale sono da individuare. Va ad esempio considerata l’esperienza della “mucca pazza” che, da emergenza sanitaria come si è presentata, ha dato il via a modifiche e limiti all’allevamento animale rivelatisi giovevoli sotto diversi aspetti.
Il nocciolo etico, interesse di questo libro, sta nel capire come si sceglie se destinare o meno (e in che quantità) cereali e altre produzioni (soia ad esempio) all’allevamento di animali per carne oppure se destinarle a sfamare gli uomini direttamente.
Fatte queste valutazioni basilari, le scelte sul tipo di allevamenti (biologico, tradizionale, pascolo libero ecc.) e sui siti dove farli avranno ulteriori risvolti etici.
Guardando il problema da un’altra prospettiva, al posto del consumo di carne si stanno cercando di promuovere fonti proteiche alternative per lo sviluppo della popolazione mondiale: la soia per fare il Tofu e il Miso; il glutine di frumento tenero, farro e kamut per fare il Seitan; si stanno inoltre facendo ricerche per ricavare, tramite lieviti e funghi, da carboidrati, cellulose e altri substrati vegetali, alimenti ad alto contenuto proteico che teoricamente vorrebbero sostituire il prodotto animale insufficiente, inquinante ed eticamente controverso. C’è solo un’obiezione a questo: se, come abbiamo visto, anche i bovini sono geneticamente strutturati per mangiare erba e non granaglie, anche il nostro organismo, ma soprattutto il nostro gusto è geneticamente determinato per preferire la carne, sia come struttura e consistenza (texture) che come sapori ed odori (flavour).>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

sabato 30 giugno 2012

Critica alla FAO

<< Caso studio: critica alla FAO

La FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations), come dice il sito stesso dell’organizzazione, «guida gli sforzi internazionali per sconfiggere la fame. Agendo sia nei Paesi sviluppati che in via di sviluppo, la FAO si comporta come un forum neutrale dove tutte le nazioni si incontrano alla pari per negoziare accordi e dibattere le linee programmatiche e di condotta. Noi aiutiamo i Paesi in via di sviluppo e quelli in transizione a modernizzare e migliorare l’agricoltura, la selvicoltura e la pesca, e assicurare a tutti una buona alimentazione. Dalla fondazione, nel 1945, una particolare attenzione è stata dedicata alle aree rurali in via di sviluppo, che accolgono il 70 percento della popolazione mondiale povera e affamata» (http://www.fao.org/about/en/).
Dai dati che emergono ogni giorno e che troviamo sullo stesso sito della FAO, la fame del mondo non è assolutamente stata ridotta. Anzi è aumentato il numero delle persone che in termini assoluti muoiono di fame, anche perché la crescita numerica della popolazione ha un andamento esponenziale. Se ne deduce che la FAO negli ultimi anni ha sempre fallito i suoi obiettivi.
Emerge il dubbio che queste organizzazioni siano create dai paesi occidentali per esercitare un controllo psicologico sulle popolazioni dei paesi più poveri, nonché per dare a quelle dei paesi ricchi una parvenza di azione mirata a risolvere una realtà drammatica in cui empaticamente si sentono coinvolte.
Quindi, come notano Colombo e Onorati (2009:45), sono continui e ripetitivi i messaggi di soluzione alle criticità del mondo: «Così come le colpe e le assoluzioni, anche le ricette [alle crisi alimentari ed energetiche] sono evocate come dei mantra ipnotici».
Si coinvolgono gli scontenti per far loro credere, ad esempio, che: «il Vertice Mondiale sull’Alimentazione (che nel 1996 impegnava gli stati a dimezzare il numero degli affamati per il 2015), il successivo Summit del 2002 (che fece un amaro punto sui mancati progressi di quell’impegno, ma che poneva le basi per l’adozione di un codice di condotta sul diritto al cibo), la Conferenza sulla Riforma Agraria e lo Sviluppo Rurale di Porto Allegre del 2006 rappresentano tre appuntamenti di grande rilevanza in cui la FAO e la società civile organizzata hanno saputo intavolare un dialogo costruttivo, basato sul riconoscimento dell’autonomia e sull’importanza della partecipazione» (Id., 2009:52). Ma, anche se vi è stata la dimostrazione di un dialogo costruttivo, tutto si è fermato a quello. E così ci saranno tanti altri Summit che cercheranno di trovare risposte a ciò che praticamente non si può risolvere, ma aiuteranno a sopportare le iniquità presenti nella vita e nel mondo.
Per capire il trend delle sempre nuove soluzioni individuate per i problemi atavici della malnutrizione, riportiamo dalla stessa fonte che negli ultimissimi anni – per i vari Relatori Speciali delle Nazioni Unite per il diritto al cibo – la «sovranità alimentare e produzione di cibo su piccola e media scala in chiave agroecologica» sono la soluzione ai problemi agricoli e di accesso al cibo. Questa seppur suggestiva ipotesi non servirà, purtroppo, ad aiutare le popolazioni ed i popoli poveri del mondo; al massimo, se mai verrà messa in atto, servirà nel migliore dei casi ad abbattere l’impatto dell’inquinamento o a posticipare il momento del collasso del pianeta. La funzione precipua è quella di far credere a chi inizia a percepire il collasso del pianeta, o a chi lo sta già subendo, che ci si stia dando da fare.
«Nel contesto delle Nazioni Unite, quel che l’IPC [Comitato Internazionale per la Sovranità Alimentare – organismo che facilita l’emersione dei movimenti che rappresentano i piccoli produttori di cibo] ha ottenuto presso la FAO è rilevante, se si comprende che in tali spazi internazionali dell’ONU i processi richiedono molto tempo. Al movimento indigeno sono serviti più di 20 anni per ottenere l’adozione della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni» (Colombo e Onorati, 2009:241). A parte il fatto che bisognerebbe valutare l’effettiva portata di tutte queste Dichiarazioni che rimangono sulla carta, quello che preme sottolineare è che la lentezza della FAO e dell’ONU è funzionale al non cambiare nulla. Con il tempo chi ha iniziato le sue battaglie e le sue guerre ideologiche smorza la sua foga, invecchia, si demoralizza o si sente appagato, oppure semplicemente muore e avanti così, con sostituti che hanno altre idee e nuovi obiettivi con la conseguenza che il processo ricominci tutto da capo e il mondo mantenga il suo equilibrio tra sfruttati e sfruttatori.
Ed infatti la FAO è permeabile alle esigenze del mercato: «L’influenza della GDO comincia ad emergere anche nella FAO quando scrive che “il contract farming [i contratti di coltivazione, N.d.A.] ben organizzato sembrerebbe offrire uno strumento importante attraverso il quale i piccoli produttori possono coltivare in una forma commerciale. Similmente, offre agli investitori l’opportunità di garantire una fonte affidabile di fornitura, sia sotto il profilo della qualità che della quantità”. Sono gli stessi Stati membri a raccomandare formalmente un impegno della FAO a sostenere questa modalità di produzione e distribuzione nel corso delle conferenze regionali della FAO in Medio Oriente o in Europa. La GDO diviene così un nuovo commensale alla tavola della global governance su agricoltura e alimentazione» (Id., 2009:252-253).
I gruppi privati collaborano con i governi per indirizzare le politiche della FAO e cercare nuovi sbocchi di mercato stimolando il consolidarsi di triangolazioni fra agenzie intergovernative, grandi corporation e fondazioni filantropiche, come le fondazioni Gates, Rockefeller, Sygenta o Clinton, che contribuiscono a forgiare le politiche agricole governative e intergovernative ponendo particolare enfasi sull’impulso alle tecnologie agricole. È chiaro, visto che non ci sarà mai la risoluzione del problema della fame nel mondo, che queste azioni sono portate avanti in funzione di guadagni personali, anche se abilmente mascherati. Infatti «l’altruismo filantropico a vantaggio degli affamati si costruisce investendo nell’azionariato del junk food: l’abbattersi della crisi finanziaria ed economica anche su questi magnati e sulle loro operazioni umanitarie ha infatti spinto la fondazione Gates a reagire con una strategia anticiclica di diversificazione degli investimenti, incrementando la sua partecipazione in McDonald’s dai 4,9 milioni di azioni del mese di settembre 2008 a 6,4 milioni a dicembre, aumentando anche la quota in Coca Cola da 1,7 a 5,7 milioni di azioni» (Id., 2009:254).
Con il grimaldello di una filantropia opportunista, si conquista la possibilità di entrare su nuovi mercati.
Ma proprio per sottolineare come i governi influenzino e facciano pressioni sulla FAO a prescindere da tutte le Dichiarazioni, le riunioni ed i convegni con le parti più deboli il passaggio seguente è molto esplicativo: «La nota formale indirizzata al Direttore Generale della FAO da Canada, Australia, Giappone, Inghilterra, USA e Germania il 4 aprile 2006 gli ricorda in modo poco cortese o diplomatico che loro, come “principali paesi donatori” esprimono “forti raccomandazioni” sul ruolo della FAO... […] In effetti, le discussioni tra gli stati per ridisegnare la FAO del futuro attraverso la riforma delle sue strutture e del suo mandato fondamentale (combattere la fame e la povertà attraverso il miglioramento delle condizioni di vita economiche e sociali di coltivatori rurali più poveri), testimoniamo il tentativo di un gruppo di paesi donatori di dotarsi degli strumenti di governo del Pianeta» (Id., 2009:256-257).
Dal sito ufficiale dell’organizzazione, riportiamo anche che la FAO sostiene come impegno fondamentale «garantire a tutti la sicurezza alimentare per assicurare alla popolazione un accesso regolare ad alimenti sufficienti e di buona qualità per una vita attiva e sana» ed inoltre che «il mandato della FAO è di elevare il livello di nutrizione, aumentare la produttività agricola, migliorare la vita delle popolazioni rurali e contribuire alla crescita dell’economia mondiale».
Le campagne dichiarate della FAO sono sempre fallite o non sono mai state messe in atto? Rispondiamo che la vera funzione della FAO è stata quella di mantenere in equilibrio l’economia di sfruttamento posta in atto nei vari paesi, riducendo le rivoluzioni e le sommosse popolari cruente che vanno a ridurre le potenzialità economiche del sistema mondo. In più, nei paesi ricchi, è servita come strumento di lavaggio della coscienza per le malefatte compiute. Le varie assemblee e riunioni fatte nel mondo, con dibattiti falsamente democratici, hanno funzionato da ricettacolo delle rabbie represse e delle frustrazioni dei popoli deboli ed affamati, ma in realtà i giochi sulla loro pelle venivano fatti altrove.>>

(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)