sabato 9 giugno 2012

McDonaldizzazione 1/3

<< McDonaldizzazione

Affrontando l’argomento dell’etica agroalimentare nel settore della ristorazione, non si può evitare di parlare della catena di ristoranti McDonald’s, una realtà nella quale possiamo ritrovare la maggior parte dei dubbi etici della filiera alimentare; per inciso:
- Sfruttamento e limitazioni delle libertà della forza lavoro.
- Qualità nutrizionale del prodotto alimentare, influenze sulla dieta, ingredienti, additivi.
- Utilizzo di animali e carni, sia per quanto riguarda la mattanza che per l’impatto ecologico che ha allevare gli animali.
- Pubblicità, marketing ed influenza sui minori.
- Utilizzo degli imballaggi e impatto degli stessi sia come produzione che come rifiuto.
- Spreco di prodotto alimentare ancora edibile.
«Sempre di più, la gente mangia fuori e molto cibo è acquistato attraverso i punti vendita Fast-Food. Per esempio, l’azienda americana McDonald’s, che ora opera in molti Paesi del mondo, ha basato i suoi affari  su “i quantificabili principi di velocità, volume e basso prezzo... [con] l’offerta per i clienti di menù fortemente limitati e definiti usando procedure da linea di assemblaggio per la preparazione e la somministrazione del cibo” (un fenomeno chiamato McDonaldizzazione). Quasi inevitabilmente, il cibo veloce ha gravi conseguenze sulla salute pubblica» (Mepham, 2008:271).
L’approccio che viene dato alla realtà di questa catena di ristoranti impone già un’idea etica di tipo negativo, anche se non necessariamente accentuata.
Nel contempo, però, è necessario ricordare la grandissima valenza democratica dei ristoranti McDonald’s: quando si entra nel ristorante si è tutti uguali. Inoltre, per le classi poco abbienti, trovare della carne cotta, sana, di quella qualità, a quel prezzo, è quasi impossibile altrove. Pensiamo a qualcuno che non si può permettere una casa con una cucina o, per le condizioni economicamente difficili in cui si trova, non ha la possibilità o il tempo per cucinarsi e consumare dei pasti caldi. Ne sanno qualcosa anche i tantissimi migranti e turisti, che si possono trovare in difficoltà e ricercano cibo a buon mercato e gratificante. Entrano in un posto dove nessuno richiede particolari dress-code e il meccanismo di acquisto è standardizzato, dove sai esattamente quanto costa il prodotto e non ti puoi sbagliare e dove non si pongono grandi barriere linguistiche: tutti possono ritrovarsi a casa in questi luoghi, proprio perché magari lo hanno già sperimentato da qualche altra parte.
«McDonald’s si rivolge al gruppo dei consumatori che ha l’attaccamento minimo alla tradizione: i bambini e i giovani. Per assicurarsi giovani clienti le catene di fast food hanno cercato alleanze strategiche  con aziende produttrici di giocattoli, con squadre sportive, con studi di Hollywood» (Franchi, 2009:162). La tecnica è semplice: lavora sul loro cervello finché sono piccoli, quando le connessioni nervose sono ancora plastiche, per non uscirne mai più. Al punto che la tradizione, l’abitudine, per questi bambini diventa McDonald’s, complice una classe genitoriale senza senso critico che purtroppo è a sua volta inserita in un sistema di sfruttamento che la rende pedina del sistema produttivo e consumistico. Questi genitori potrebbero essere definiti come “soggetti-bestie” insieme ai loro figli: devono consumare, e quella è la loro valenza nel sistema in cui sono inseriti; sono soggetti ipnotizzati tramite le tecniche dello Show Business e dello Sport Business. Ad un certo punto, non riescono a contrastare i flussi informativi della società e vengono “sballottati” da una parte all’altra a consumare e, in questo caso, ad ingozzarsi di quello che gli viene proposto-imposto.
«Il modello [McDonald’s] è stato sottoposto negli anni a critiche sempre più feroci in quanto sinonimo di cibo di bassa qualità e anche per le condizioni di lavoro praticate, per i metodi di allevamento intensivo del bestiame e lo scarso rispetto per la salute e l’ambiente» (Ibidem). Si sono creati così dei movimenti culturali, sfociati anche in violenze, contro la catena del McDonald’s come simbolo negativo della globalizzazione, dello sfruttamento dei lavoratori, dell’allevamento intensivo e non rispettoso dell’ambiente.

Gli “attacchi” alla catena di fast food McDonald’s, sia in termini di gruppi no-global ed ecologisti, sia in forma artistica o comunicazionale, sono sotto molti aspetti controversi. La prima domanda che ci si può porre è: se ogni punto vendita della catena avesse un nome diverso, in tutto il mondo, l’accanimento sarebbe uguale? Ci sarebbe quindi lo stesso impatto inquinante, se non maggiore, viste le ridotte economie di scala applicabili sugli imballaggi; la percezione sarebbe differente? Siamo sicuri che non ci siano anche ristoranti a 5 stelle che inquinano, anche di più, e che distruggono le biodiversità? Forse questi non vengono attaccati perché non si percepisce il loro inquinamento, o nessuno ne parla male perché rientra nel diritto dei ricchi sfruttare senza ritegno le risorse naturali e i propri lavoratori? Perché, se è vero che le produzioni agricole che riforniscono le catene di fast food riducono la biodiversità per il depauperamento dei terreni, per le monoculture e l’allevamento di un ridotto numero di specie animali su vaste aree, dall’altro abbiamo anche ristoranti o singoli che utilizzano per il loro godimento culinario specie in via di estinzione, ad esempio i ricci di mare consumati in tante trattorie del lungomare italiano.
Ad un certo punto potrebbe anche essere che prendersela con McDonald’s sia come sparare sulla croce rossa per non attuare adeguate ricerche su tutti i fautori del degrado ambientale conseguente alla produzione e alla somministrazione di alimenti. Diventa uno sfogo delle nevrosi sociali, nemmeno più alimentari.
Il punto da analizzare è che una rappresaglia nei confronti di McDonald’s, se fatta creando dei danni materiali e di immagine, è perseguita dalla legge in nome di una azione unilaterale che non distribuisce le responsabilità attribuite a McDonald’s su tutti gli attori della situazione. In altre parole, se spacchiamo la vetrina del McDonald’s di Toronto in Bloor Street West perché McDonald’s Inc. inquina il mondo, non possiamo fargliela pagare solo a quel franchesee (affiliato) che ha fatto un investimento magari discutibile (per qualcuno) ma consentito dalla legge. Tra l’altro, se non siamo d’accordo sulle modalità del business, nessuno ci obbliga ad entrare e consumare in quel locale.
In questa prospettiva il comportamento degli ambientalisti che si sentono salvatori del mondo (per loro il comportamento etico significa questo), non considerando che tutto è destinato a finire (come il mondo del resto), è alquanto controverso e presenta  comunque degli aspetti megalomani se non addirittura patologici. Si può addirittura asserire che costoro non hanno fondamentalmente capito cos’è la vita o hanno un approccio distorto e illusorio rispetto ad essa.
Dall’altra, le sinergie della catena McDonald’s con i gruppi ambientalisti esprimono in certa misura un cortocircuito intellettivo macroscopico: «McDonald’s si è alleato con Greenpeace nelle “campagne verdi” [...]» (Franchi, 2009:162).
Il fatto che questi gruppi ambientalisti accettino la collaborazione della multinazionale (in pratica soldi) per finanziare progetti di salvaguardia della foresta amazzonica, stabilisce di fatto che la mattanza dei bovini e dei polli va bene (o è accettabile) determinandone un declassamento. Ma questo declassamento è di tipo etico, cioè riguarda solo la considerazione che l’uomo ha di questi animali e non ha una corrispondenza in natura. Qui si inserisce il discorso dell’etica neurale rispetto a cosa sia la coerenza, e della preponderanza della coerenza percepita o ricercata tramite azioni che scaricano il dubbio etico. Se non si collega un hamburger con un animale morto, è chiaro che basta poco per rasserenare gli animi. Così, per il consumatore, sapere di queste collaborazioni con associazioni ambientaliste gratifica e crea una giustificazione etica a chi la richiedeva e consente a McDonald’s di recuperare dalla flessione delle vendite derivanti dalle critiche di imperialismo gastronomico che le sono state attribuite negli anni.
Inoltre, seguendo i principi degli ambientalisti, non ci dovrebbero essere distinzioni tra gli animali e allora, grazie a queste collaborazioni, si possono dedurre due cose:
1) Si identifica una “linea di demarcazione” etica, sotto la quale i nostri dubbi non si esplicano più (in pratica un bovino allevato apposta allo scopo di macellazione non crea più alcun dubbio etico).
2) Per quanto riguarda la gratificazione etica e lo scarico del disagio psicologico (allontanamento della responsabilità della morte) basta sapere che, a grandi linee, si fa qualcosa per gli animali, così da allontanare l’ansia e la rabbia di un pensiero che non si riesce a sostenere.>>
(Testo tratto dal libro "Il Piatto Piange" di Andrea Meneghetti vedi qui)

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